L’Arte e il Culto

L’artista di fama internazionale Lello Esposito arriva con le sue opere al Palazzo Ducale di Sant’Arpino in occasione della rassegna culturale Pulcinellamente, ideata e organizzata dall’unione dei Comuni Atellani.
La mostra intitolata ‘‘Da Maccus a Pulcinella. La metamorfosi di una maschera’’ vuole rappresentare, attraverso le opere pittoriche e scultoree dell’artista partenopeo che vive tra Napoli e New York, un ritorno alle origini e alla tradizione attraverso lo strumento dell’arte contemporanea e riscoprire quel filo rosso che collega la tradizione delle Maschere Atellane alla popolare figura di Pulcinella.
Ma folklore e tradizione non sono che la punta dell’iceberg di un’arte che, nella ricerca del culto, mescola forme e colori di una rappresentazione simbolica: la maschera è la dimensione ancestrale dell’uomo che fatica a nascondere una natura fatta di malinconica rassegnazione di fronte all’ineluttabilità dello scorrere della vita.
Sullo sfondo una Napoli simbolica che vive una metamorfosi immobile, una città kafkiana, sempre uguale eppure diversa, che segna il destino delle genti che si nascondono nel suo ventre: passato e presente si incontrano e si scontrano nella rappresentazione artistica dell’uomo contemporaneo, uno scontro titanico senza vinti né vincitori di cui l’artista porta il peso e si fa portavoce.
La forza viscerale del Vesuvio sta per esplodere in tutta la sua passione mentre Pulcinella è l’anarchico tra gli anarchici, ultimo eroe romantico del suo popolo, libero da ogni schema razionale, risponde alle pulsioni più profonde ed emerge come una lava rossa che da secoli giace nelle viscere della terra e dell’animo umano. Il Pulcinella di Esposito è il Sisifo contemporaneo che sapendo di dover morire, trova la sua liberazione nella sopportazione della vita.
Celebri le parole di Massimo Troisi a riguardo: «Non ho mai visto la mia anima, eppure entrando nello studio di Lello Esposito ne ho sentito l’odore».

Figli di uno sport minore?

Pallamano. Uno Sport semi sconosciuto nel resto dell’Hinterland diventa e rappresenta ad Orta di Atella lo Sport del Popolo. Stagioni esaltanti, quelle degli anni ’80 e ’90 e una ribalta Nazionale che fece sognare molta Gioventù Ortese, poi il dimenticatoio e la dimenticanza fino al ritorno dell’ultimo decennio, gli atleti di ieri si fanno dirigenti, si prendono sulle spalle un movimento che non meritava di morire e lo riportano la dove si era fermato anni prima, ai successi e alla ribalta Nazionale.
Uno Sport bistrattato che non è mai riuscito a diventare anche nelle scelte politiche, punta di diamante di un Territorio, considerato ingiustamente come Sport Minore. Niente a che vedere con l’amato, coccolato e finanziato Calcio sul quale molta politica ha costruito anche consenso elettorale ma che quasi mai ha lasciato ricordi di vittorie e successi e quasi sempre gestioni opache e opere di sperpero pubblico, come lo Stadio Comunale che resta, immutato, vandalizzato e saccheggiato a futura memoria di ciò che è stata la classe politica dell’ultimo ventennio.
Un Campionato di B Mascile e la cantera delle Under 12, 14 , 16 e 18 per l’USCA il tempo sembra non essere mai passato, dalle partite all’aperto della De Gemmis al chiuso del PalaLettieri la Pallamano resta uno dei pochi punti di riferimento per Orta di Atella.
Ma oggi come ieri la partita più importante si gioca con le infrastrutture carenti e a volte fatiscenti.
C’è da affrontare immediatamente la questione della gestione delle strutture pubbliche, come il Parco Giochi e il Palasport, l’amministrazione deve decidere da che parte giocare questa partita e dare finalmente slancio a un movimento che per troppo tempo ha dovuto sbracciarsi per farsi spazio.
Una partita che si gioca sopratutto dalla parte di una gestione pulita e trasparente, nella quale speriamo l’Amministrazione segni nella porta giusta.

2Sì al lavoro!

La Consulta ha dato il via libera a due dei tre quesiti referendari promossi dalla CGIL in materia di lavoro: non passa il quesito sull’art. 18 mentre passano i quesiti su voucher e responsabilità dell’impresa. Il popolo sarà chiamato ad esprimersi alle urne entro la prossima primavera: la data precisa sarà indicata dal Governo salvo elezioni anticipate, in tal caso se ne riparlerà nel 2018. A differenza del Referendum Costituzionale che si è svolto lo scorso 4 dicembre, il Referendum sul Lavoro è di tipo abrogativo – bisogna votare Sì – e prevede il quorum del 50% +1 degli aventi diritto al voto perché sia valido.
LA TRUFFA DEL JOBS-ACT
Il jobs-act è un pacchetto di norme sul lavoro approvate dal Governo Renzi che consiste nell’introduzione del contratto a ”tutele crescenti”, nella cancellazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, nella riforma degli ammortizzatori sociali e nell’estensione dell’uso dei voucher. Si tratta di norme che non hanno avuto alcun effetto positivo sul mondo del lavoro se non quello di facilitare i licenziamenti, smantellare i diritti dei lavoratori e aumentare la precarietà. Davanti ai nostri occhi abbiamo la fotografia di un Paese immobile, spaccato a metà con un Sud sempre più povero, dove le famiglie non arrivano a fine mese e i giovani sono costretti ad andare via per trovare lavoro; a confermarlo i dati ISTAT e CENSIS.
PERCHÉ Sì?
L’unica soluzione per contrastare precarietà e disoccupazione è cancellare il jobs-act votando Sì al Referendum sul Lavoro. Vediamo cosa prevedono nello specifico i due quesiti referendari:

  1. L’abolizione dei voucher utilizzati per la retribuzione del lavoro occasionale di tipo accessorio attraverso il pagamento in buoni (abrogazione art. 48-49-50 del D.Lgs. n.81 del 15/06/2015). Il jobs-act, nel tentativo fallimentare di regolarizzare il lavoro nero, ne ha esteso l’utilizzo a tutti i tipi di lavoro determinando un vero e proprio abuso che ha generato maggiore precarizzazione e deregolamentazione del mercato del lavoro. I più colpiti da questo provvedimento sono stati i giovani che, in mancanza di un lavoro vero, si sono ritrovati più poveri, sotto ricatto e senza diritti.

  2. La reintroduzione della responsabilità dell’azienda appaltatrice, oltre a quella che preleva l’appalto, in caso di violazioni subite dai lavoratori (abrogazione art.29 del D.Lgs. n.276 del 10/11/2003). Di conseguenza, essendo chiamato a rispondere anche il committente dell’appalto, le aziende saranno tenute ad esercitare un controllo più rigoroso in termini di efficienza, trasparenza, legalità e sicurezza sui luoghi di lavoro.
    VOTARE È IMPORTANTE
    Ancora una volta va sottolineata l’importanza del referendum quale strumento di democrazia diretta, volto a ridare voce e potere alle persone, a chi è senza voce, e attraverso il quale i cittadini sono chiamati a decidere con il loro voto senza intermediazioni. La priorità oggi nel nostro Paese è salvaguardare il diritto al lavoro e tutte quelle tutele di cui hanno bisogno i lavoratori per poter vivere con dignità, per portare il pane a casa, per soddisfare i bisogni e le esigenze delle proprie famiglie e soprattutto per poter assicurare ai propri figli un futuro dignitoso. Quella del Referendum sul Lavoro rappresenta infatti una battaglia di civiltà e di buon senso, nel pieno rispetto dell’art. 4 della Costituzione nonché nell’attuazione dell’art. 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: il lavoro è diritto, non un privilegio!

Dopo il Referendum: Che Fare?

La vittoria del NO al Referendum Costituzionale offre la grande occasione di rimettere al centro del dibattito pubblico il tema della Costituzione, della democrazia, del lavoro e dei diritti delle persone; temi che per troppo tempo sono stati presi in ostaggio da una classe politica incapace e corrotta, sia a livello nazionale che locale, il cui unico scopo è quello di arricchirsi alle spalle di cittadini e lavoratori. Ma non basta difendere la Costituzione, è arrivato il momento di attuarla: dobbiamo passare all’attacco se vogliamo vincere questa importante partita e dare una svolta per migliorare le nostre vite. È in gioco il nostro futuro.

Ma come si vince? Per farlo bisogna mettere in campo una serie di proposte serie e concrete che trovino solide radici nella Costituzione, che rappresentino non solo un progetto di governo dei territori valido e alternativo, ma che si configurino al tempo stesso come un grande progetto di società che faccia da scudo a miseria e povertà. D’altronde crediamo nella possibilità di poter vivere in maniera dignitosa e ci impegniamo affinché questa possibilità diventi realtà.

Cosa chiediamo? Niente al di fuori quanto non sia già scritto nella Costituzione che, grazie al voto popolare, abbiamo salvato dai piani eversivi di chi detiene le redini del potere. Più nello specifico vogliamo che vengano rispettati:

  1. Il Diritto al Lavoro, così come sancito dall’art. 4 della Costituzione, e la cancellazione del jobs-act che nega tale diritto rendendo i lavoratori schiavi, precari, ricattabili e senza diritti;
  2. Il Diritto al Salario (art. 36) che deve essere sufficiente ad assicurare a chi lavora di arrivare a fine mese e di vivere un’esistenza libera e dignitosa;
  3. Il Diritto alla Salute (art. 32) che deve essere esteso a tutti, contro una politica del ticket discriminatoria e per una Sanità Pubblica efficiente e funzionante;
  4. Il Diritto all’Istruzione pubblica e gratuita (art. 34) perché un popolo ignorante è un popolo senza futuro;
  5. L’Accesso Libero ai Saperi (art. 33) perché solo investendo in cultura e ricerca potremo costruire un nuovo Paese da cui i giovani non siano costretti a scappare;
  6. Il Rispetto dell’Ambiente (art. 9) per tutelare il paesaggio e i territori in cui viviamo da inquinamento, cemento, trivelle, inceneritori ed ecomafie;
  7. Il Rifiuto della Guerra (art. 11) per non spendere soldi inutili in armi e per promuovere la pace, lo sviluppo e la cooperazione tra popoli;
  8. Il Superamento delle Diseguaglianze (art. 3) affinché tutti i cittadini abbiano pari dignità sociale senza distinzioni di sesso, di razza e di religione.
    Vogliamo infine più democrazia nei nostri territori, in Italia e in Europa, a partire dal rispetto della volontà popolare che nel 2011 si è espressa a favore dell’acqua pubblica (ma che è rimasta in mano ai privati) e il rifiuto del Pareggio di Bilancio, introdotto con la modifica dell’art. 81 della Costituzione senza consultare nessuno e che non permette gli investimenti pubblici necessari per rilanciare l’economia nel nostro Paese, specialmente al Sud: solo così potranno essere creati nuovi posti di lavoro e garantiti welfare e diritti per tutti, nessuno escluso.

L’Utopia e la Bellezza. Il Calendario 2017 di Città Visibile

Sempre, nei giorni in cui giravo per Orta nella preparazione di questa serie di dipinti e foto, mi veniva in mente un’affermazione recita così:

L’Urbanesimo accentua il sottosviluppo del Cittadino e lo rende più incline al Consumo.

L’urbanesimo sfrenato di cui siamo vittima mi appare come qualcosa di estraneo al vecchio centro storico, un monumento all’amnesia che annienta la nostra memoria storica e genera una specie di cittadino straniero alla terra in cui vive. Nello stesso tempo, svuota gli indigeni di quel senso di appartenenza che è peculiarità della qualità della vita collettiva.

Un enorme blocco che ha trasformato la nostra città, ne ha cambiato la forma, oscurato la luce, sbiadito il colore. Mi appare questo nuovo spazio urbano come un non spazio, in cui vige l’assenza di limiti, dove il cittadino che vi abita è solo e diventa l’archetipo di quella omologazione pasoliniana che ha ispirato il mio progetto.

Un non spazio di cui non riesco a immaginare il colore, per questo l’ho dipinto e l’ho fotografato in bianco e nero. Né mi interessa se le foto sono prive di espressione: ho solo voluto attraverso esse documentare la  degradante realtà che mi circonda. Mentre nella rappresentazione del centro storico ho cercato di imprimere sulla tela e nelle foto l’immagine di quei colori che la mia terra mi rimanda dal passato, e che mi sognano davanti agli occhi, come un orgia di rossi, di arancio e di gialli che si adagiano nel grano quando felice e stanco tornavo dall’Astragata.

Credo che un programma alternativo a questo (sotto)sviluppo senza limiti sia imprescindibile, quello che Pasolini  amava chiamare “l’opera collettiva di un popolo” e che noi possiamo riconoscere in molti scorci del nostro centro storico, riconoscerla e difenderla alla stessa stregua con cui difendiamo l’opera d’arte di un grande autore.

Assalto respinto

Il dato certo, inoppugnabile, che emerge dal voto referendario di domenica scorsa è che l’assalto, probabilmente definitivo, da parte del Governo Renzi ad una Costituzione già “sofferente” e sempre in attesa di una sua piena applicazione è stato respinto, ed in proporzioni difficilmente preventivabili alla vigilia.

Certo, vi sono molte cose dentro quegli oltre diciannove milioni di no che hanno segnato la Caporetto di questo governo di saltimbanchi e trasformisti, ed una analisi più approfondita certamente andrà fatta. Quello che tuttavia si può già assumere come elemento valutativo è che, in un colpo solo, è stato respinto il tentativo di mettere mano alla nostra Costituzione e sono state bocciate le manovre iper-liberiste di questo governo, che in un paio di anni è riuscito, con la precarizzazione totale del lavoro e l’affossamento definitivo della scuola pubblica, dove nemmeno la peggiore stagione berlusconiana, di cui peraltro questo governo è figlio illegittimo, era riuscita.

Il NO ha vinto praticamente in tutta Italia, ha stravinto tra i giovani, a dimostrazione che gli espedienti retorici di Renzi si sono schiantati sulla realtà dei voucher e dello sfruttamento sistematico di chi si approssima ad entrare nel mondo del lavoro. Nel Meridione il dato è ancora più netto ed assume un senso preciso se si pensa che il PD ne governa tutte le regioni. Una volta di più una insofferenza manifesta, ed esplosa fragorosamente, nei confronti delle politiche del Governo Renzi, che ha dirottato fondi al Nord lasciando le briciole al Mezzogiorno (tanto per fare un esempio: ferrovie 98%; università 85%).

Una riflessione specifica, seppur breve, merita il risultato maturato ad Orta di Atella, dove ha di fatto assunto proporzioni larghissime a favore del NO. Il Collettivo Città Visibile, da sempre schierato per il NO, ha favorito e promosso, non solo ad Orta, ma anche a Succivo, Sant’Arpino e Cesa, la nascita dei Comitati per il NO ed è stata l’unica forza politica, insieme al Movimento 5 Stelle a schierarsi a viso aperto e limpidamente contro la Riforma Boschi-Renzi-Napolitano.

Un risultato per nulla scontato, se si considera che dall’altra parte, schierato per la Riforma c’era praticamente tutto il panorama politico ortese. Impegnato in effetti in riposizionamenti, valutazioni sul dove si sta più al caldo domani, scommesse sui futuri cavalli vincenti e oin improbabili ed oscene evoluzioni verbali, ma tutto schierato per il SI. Con la particolarità del Partito Democratico, diviso in due per colpire unito con la componente caputiana degli iDem, che si è spesa ed esposta non poco; e poi il Partito Socialista; Deluchiani e amanti delle fritture di pesce; Balene Bianche e quasi tutti gli amministratori, Sindaco in testa, pure lui in cerca d’autore.

Ovviamente nessuno, tra noi, sogna di intestarsi gli oltre 8.500 voti espressi per il NO. Stessa cosa, immaginiamo valga per il Movimento 5 Stelle. È evidente che, nello specifico della realtà ortese questo è stato un voto di popolo, che ha travalicato gli steccati (peraltro piuttosto scorrevoli) dei partiti e ha rifiutato l’idea dell’uomo solo al comando. E proprio in questo dato vi è tutto il simbolismo che assume questo voto a Orta di Atella. Un risultato straordinariamente  significativo per un popolo, come quello ortese, che è ancora lì a leccarsi le ferite provocate  dalla retorica dell’uomo solo al comando dalla quale hanno attinto a piene mani gli amministratori di ieri che poi sono gli stessi di oggi.. Questo è un dato che da speranza!

E se è vero che l’assalto che è stato respinto domenica non restituisce molto in termini di costruzione di quella alternativa che con fatica stiamo praticando anche nel nostro paese, è altrettanto vero che ci dice che esiste un popolo che vuole tornare a partecipare, che vuole provare a respingere l’idea di una classe politica che vuole esercitare il potere per il potere.

È guardando a questo popolo che, da domani riprenderemo come Città Visibile a tessere quel filo rosso che unisce associazionismo, militanza, sindacalismo di base e tutte quelle esperienze che si sono unite per un NO Sociale a questo Referendum.

Festeggiamo questa vittoria, dunque, ma nella consapevolezza del domani duro, di lotta e di lavoro, che attende tutti noi.

In morte di Fidel Castro. Rivoluzionario.

Nei tempi in cui viviamo, dove non si nega a nessuno la possibilità di tracciare bilanci e promuovere o bocciare esperienze che hanno cambiato la storia; dove un Saviano qualsiasi può esprimere liberamente le sue enormità da intellettualoide tuttologo esperto in decontestualizzazioni e luoghi comuni, proviamo anche noi, come Collettivo, come uomini e donne che stanno insieme nella pretesa, in sè fisiologica e assurda, di modificare l’esistente, a raccontare cosa ha rappresentato, e cosa rappresenta, per noi Fidel Castro.
Nessuno di noi appartiene a quella generazione che ha vissuto coscientemente la Rivoluzione Cubana, ma ognuno di noi ha letto, magari di notte, di quando Fidel, Ernesto e Camilo guadagnavano metri e speranza sulla Sierra Maestra. Ed ognuno di noi si è emozionato per quel testardo e insopprimibile anelito di giustizia e di libertà che lentamente andava riaffermando l’autodeterminazione dei popoli, e in un tutt’uno, spazzava via il concetto che un piccolo paese potesse essere il bordello di un grande paese. Siamo cresciuti contando le volte che gli Stati Uniti hanno cercato di assassinarlo, Fidel, ma Fidel ogni volta nasceva di nuovo, e tutte le volte che a Cuba non arrivavano libri, medicine e bulloni per via di un embargo che ogni anno, per più di cinquant’anni, hanno votato Stati Uniti, Israele e Micronesia. E Cuba è rimasta lì, e ha resistito.
Ridurre la vicenda di Fidel nel recinto della Guerra Fredda è fuorviante, è un espediente utilizzato dai suoi critici, quelli che hanno tentato in tutti i modi ed in ogni luogo di etichettarlo come filosovietico, epigono tropicale dei socialismi reali dell’est europeo. Niente di tutto questo. Certo, da comunista, da antimperialista, tra Stati Uniti e Unione Sovietica aveva ben chiaro da che parte stare, ma Cuba non è crollata nel 1989, e son passati ventisette anni.
Ha rappresentato un riferimento per tutto il continente latinoamericano, Fidel Castro, anche per chi ha rifiutato di adottarne il modello, come Salvador Allende, ma perseguiva lo stesso fine, il socialismo. È stato un riferimento per tutti quei popoli, dal Venezuela al Cile, dalla Bolivia al Nicaragua, dall’Argentina al Salvador che, in tempi diversi hanno tentato di uscire dal corile di casa degli Stati Uniti. Ma è stato un riferimento anche per noi quaggiù, almeno per quelli che non si arrendono alla dittatura del capitale e non ritrovano in questa Europa opulenta ed ottusa che sta morendo di neoliberismo ed ipocrisia. Quella Europa che s’indigna per i balseros cubani ma poi respinge quelli che attraversano il mare per sfuggire alla fame e alle guerre che lei stessa fomenta. Ah la democrazia!
È stato un modello ed un compagno di lotta per Nelson Mandela, il quale più volte affermò, come ben ricorda Gennaro Carotenuto, che senza la Rivoluzione cubana, senza la volontà politica di Fidel Castro, senza il sangue di migliaia di combattenti cubani, oltre che degli angolani dell’MPLA di Agostinho Neto, delle milizie armate del suo African National Congress e dei namibiani della Swapo, l’apartheid non sarebbe finita. L’apartheid non finisce perché finisce la guerra fredda o per un atto lungimirante dei buoni razzisti come in Occidente piace pensare, ma perché fu sconfitto militarmente a Cuito Cuanavale, nella più grande battaglia campale in territorio africano dalla fine della seconda guerra mondiale. I cubani vi svolgono, tra la fine dell’87 e l’inizio dell’88, un ruolo decisivo e lì si aprono le porte del carcere dove il “terrorista” Mandela era sepolto da oltre un quarto di secolo. Per Cuba, per Fidel, l’internazionalismo e la lotta al razzismo non erano parole.
Un dittatore. Così i custodi dei diritti democratici definiscono oggi Fidel. Satana, si legge sui cartelli sventolati a Miami da qualche centinaio di esuli cubani, molti dei quali stampano fogli di propaganda pagati dalla CIA. Rivoluzionario, diciamo noi. Con le contraddizioni e le ombre che ogni rivoluzionario, storicamente, porta con sè.
Ma un rivoluzionario, questo è stato Fidel. È stato detto che ha represso la Chiesa Cattolica, ma ben prima dello storico incontro con Wojtila, che in quegli anni peraltro si incontrava pure, ed amichevolmente, con Augusto Pinochet che i dissidenti li sventrava e li lanciava in mare aperto, aveva riaperto gli spazi di libertà religiosa come ampiamente riconosciuto dal Cardinale primate Ortega, che da anni dichiara di non avere alcun conflitto da lamentare con la Rivoluzione. Questo mentre centinaia di religiosi formatisi sull’onda lunga del Concilio Vaticano II e della Teologia della Liberazione, venivano assassinati, non a Cuba, ma nel resto del continente, come Óscar Romero, con il Vaticano che solitamente volgeva altrove il suo ecumenico sguardo e qualche volta giocava a tennis con i carnefici, vedi Pio Laghi con Massera, in Argentina.
Ombre, certo. A Cuba, specie negli anni settanta, vi sono stati costantemente alcune decine e in alcuni periodi alcune centinaia di prigionieri politici. Ma sono poca cosa rispetto a quelli detenuti senza alcuna incriminazione a Guantanamo, alcuni ormai da 15 anni. Certo, pure un solo prigioniero politico è troppo ma fa male ai custodi degli spiriti democratici dover ammettere che non esiste un solo paese del continente americano, Canada escluso, Stati Uniti inclusi, dove i diritti umani siano stati violati meno che dalla “dittatura” cubana in questi 57 anni.
Strano dittatore dunque, questo Fidel Castro. Prendendo ancora una volta in prestito i concetti espressi da Gennaro Carotenuto, è stato il dittatore di quell’unico unico paese del continente americano che non ha conosciuto il termine desaparecidos. Centinaia di migliaia di persone sono state fatte sparire nel frattempo da dittature e democrazie filoamericane praticamente in tutto il continente. “È triste pensare che solo la dittatura di Fidel Castro abbia fatto da argine al crimine contro l’umanità della sparizione forzata di persone e del terrorismo di stato. Senza libertà di stampa, Cuba è pur sempre l’unico paese al mondo dove non è mai stato ammazzato un giornalista. E neanche un sindacalista, laddove in paesi come il Brasile, il Messico, la Colombia ne cade senza rumore uno al giorno”. Diecimila bambini al giorno muoiono di fame, nel mondo, ogni giorno. Nessuno di loro è cubano. Neanche un bambino, infatti, è più morto di denutrizione nell’unico paese che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è libero dalla denutrizione infantile in un continente colmo di terre fertili e acqua potabile ma dove la fame resta una piaga.

E allora vai caro Fidel. Abbiamo sperato insieme a te, cercando di intravedere anche noi, quaggiù, una strada, un sentiero che ci conducesse verso un altro mondo possibile. E sappiamo che c’è, che è possibile. Fosse anche solo per questa consapevolezza, che hai contribuito a formare in milioni di uomini e donne in tutto il mondo, compreso quel punto cementificato e offeso che porta il nome di Orta di Atella, bè, fosse anche solo per questo, stai sicuro Fidel, che si, la storia ti assolverà.

10 buoni motivi per dire NO!

Il 4 dicembre si avvicina e con esso una tappa fondamentale della democrazia nel nostro Paese: i cittadini italiani verranno infatti chiamati alle urne per esprimersi sul Referendum Costituzionale. Un SI e un NO entro i quali si riassumono due visioni differenti su come debba essere costruita l’architettura costituzionale del Paese.

Trattandosi di materia giuridica complessa sarebbe un grave errore cadere nelle semplificazioni e nella propaganda di chi vorrebbe cambiare di punto in bianco oltre 1/3 della Carta Costituzionale sottovalutando le conseguenze negative che un cambiamento così radicale dei rapporti che intercorrono tra le Istituzioni Repubblicane potrebbe avere non solo sull’assetto istituzionale ma anche sul “sistema Paese” ossia quell’insieme di rapporti sociali, civili ed economici che ne determinano equilibri e stabilità.

Nella fattispecie è fondamentale andare ad analizzare punto per punto le ragioni di chi dice NO alla Riforma, entrando nel merito della questione con criticità oggettiva per sgomberare il campo da ogni dubbio e incertezza ed evitare così quel tifo da stadio e quella banalizzazione che piace tanto ai populismi ma che non fa affatto bene alla democrazia e al confronto civile e democratico.

Ecco 10 buoni motivi per dire NO:

  1. Il bicameralismo non viene superato ma continueranno ad esistere due Camere le quali, con i nuovi regolamenti, entreranno più facilmente in conflitto tra loro a livello delle procedure e degli iter legislativi.
  2. Aumentano procedure ed iter legislativi a carico del Senato così come sancito dal nuovo art. 70 (di difficile interpretazione) che creerà confusione sulle prassi da adottare e nei vari procedimenti da seguire.
  3. Il risparmio ottenuto dai tagli al Senato è minimo e ammonta a soli 50 milioni di euro mentre vengono mantenuti tutti i privilegi accumulati fino ad ora. Inoltre i cittadini vengono privati del diritto di scegliere i propri rappresentanti che verranno nominati dai partiti.
  4. Sarà più difficile indire referendum in quanto per quelli abrogativi le firme passano da 500 a 800 mila mentre per le Leggi di Iniziativa Popolare da 50 mila a 150 mila costituendo così un ostacolo alla democrazia partecipativa.
  5. Anche se non si vota per la legge elettorale (cfr. Italicum) questa è connessa alla Riforma in quanto prevede un premio di maggioranza tanto sproporzionato da non assicurare la giusta rappresentanza democratica alle minoranze.
  6. Viene indebolito il Parlamento per spostare il baricentro delle decisioni nel Governo il quale acquisterà ancora più potere: ciò mette in discussione la tripartizione dei poteri e quell’insieme di pesi e contrappesi che sono il pilastro di ogni democrazia.
  7. La nuova riforma del Titolo V rappresenta un passo indietro in termini di autonomia sia per quanto riguarda le Regioni che gli Enti Locali che perdono gran parte del loro potere decisionale.
  8. La complessità del processo legislativo aumenterà i contenziosi tra Camera e Senato e, con l’abolizione delle materie concorrenti, aumenteranno i ricorsi tra Stato e Regioni paralizzando così amministrazioni locali ed enti territoriali.
  9. La Costituzione può e deve essere migliorata ma non in questo modo. Cambiare ben 47 articoli, senza modifiche che ne migliorino realmente la struttura, mette a rischio tutta l’articolazione costituzionale provocando ingorghi e conflitti istituzionali.                    
  10. I cittadini devono essere liberi di votare indipendentemente da ciò che deciderà di fare il Governo, senza ricatti, compravendite o strumentalizzazioni sulle decisioni che verranno prese in futuro per il bene del Paese.

E’ utile infine dire che il progresso e lo sviluppo di un Paese non sono ostacolati dalle Costituzioni ma è esattamente il contrario. La nostra nasce nel 1948 per chiudere in un cassetto gli anni bui del fascismo e far rinascere così quel senso di civiltà e di rispetto democratico che si era perduto; la Costituzione Italiana ha dunque rappresentato – e rappresenta tuttora – un vero e proprio patto sociale tra i cittadini e le Istituzioni, in cui queste ultime si impegnano a promuovere i principi di uguaglianza, di giustizia e di libertà nella società.

Ci si impegni piuttosto a promuovere questi principi in maniera sostanziale, applicandoli nella realtà, piuttosto che mortificare la Carta Costituzionale e dividere in due il Paese.

Malapolitica porta a Malascuola. Cronaca di come si uccide il futuro.

Molte strutture non sono a norma, molte sono vecchie. Quelle nuove sono nate già vecchie. Gli ultimi allarmi che gettano ancora sale sulla ferita della carenza strutturale, di un servizio quasi mai degno di uno Stato che si definisce di diritto. A Orta non è cosa. A Orta non è Stato.

E bene fa la minoranza ad incalzare su questa realtà, nonostante l’interessamento sia strumentale ed ogni argomento, ogni problema assume i contorni di una resa dei conti tra vecchi alleati. Bene fa pure la maggioranza, a rassicurare i cittadini ed effettuare i sopralluoghi, anche se alla rinfusa e senza alcuna autocritica che pure s’imporrebbe doverosa dal momento che l’attuale sindaco è stato responsabile dell’edilizia scolastica anche nei decenni passati. Ovviamente fanno bene i genitori a preoccuparsi e a pretendere certezze e garanzie.

Ad Orta evidentemente tutti fanno bene, ma solo la politica può restituire un quadro chiaro della situazione. La politica: questa sconosciuta. La politica intesa nelle sue declinazioni di responsabilità e di programmazione. La responsabilità è quella che questa amministrazione deve assumersi insieme ai propri dirigenti e tecnici nel momento in cui decide di tenere aperta una struttura pubblica; la programmazione è quella che si pretende nella pianificazione di quegli interventi che sono ormai necessari e chissà se sufficienti a rendere “certificabili” gli istituti.

Nulla più e nulla meno rispetto a quello che detta la Costituzione Repubblicana, oggi così tanto amata che molti vorrebbero sfasciarla. Per cui deve essere garantito a tutti un livello di istruzione il più possibile qualitativamente e culturalmente omogeneo nel territorio nazionale.

Cerchiamo di essere chiari: se è vero che non si possono chiudere edifici scolastici che versano nelle stesse condizioni di sempre senza nessun evento rilevante da giustificare misure di emergenza, interrompendo l’anno scolastico di 3.000 alunni, è altrettanto vero che non si può pretendere che nel momento in cui un Tecnico Comunale certifica l’inagibilità di queste strutture si resti immobili facendo finta di niente. Praticamente siamo in attesa dell’evento rilevante.

Non è moralmente e politicamente accettabile restare nella condizione del non volersi assumere la responsabilità tecnica e politica dell’agibilità delle scuole e contemporaneamente non provvedere ad una programmazione degli interventi da effettuare con date certe e con una gestione trasparente da portare a conoscenza della cittadinanza.

Non c’è più tempo, le scorciatoie sono finite. Il Consiglio Comunale del prossimo 18 novembre rappresenta l’ultima occasione per i nostri amministratori per dimostrare di avere un minimo interesse a quello che abbiamo in comune loro malgrado: i ragazzi, il loro diritto allo studio, la loro sicurezza, il loro futuro.

Il sindaco e l’assessore di riferimento relazionino su come intendono intervenire sulle strutture; forniscano una programmazione seria con date certe sugli interventi. Diano il senso di aver finalmente assunto la gravità della situazione e la necessità di uscirne attraverso l’assunzione delle proprie responsabilità passate e di quelle, giocoforza, future.

Non ci si chieda però di sopravvivere anche a questa situazione così com’è, perché non lo accetteremo. Perché a tutto c’è un limite. Perché su questa vicenda il limite ce lo siamo già lasciati alle spalle.

La riforma costituzionale è un pacco

Uno degli argomenti più utilizzati dai  fautori del sì è quello del “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” (per dirla con le parole della scheda che avremo tra le mani il 4 dicembre).
Il tema del risparmio fa presa, è di facile comprensione, convince.
Proviamo a guardare in profondità. L’ideologia del risparmio è cosa buona e giusta a prescindere?
È utile, per spiegare le ragioni del no, avvitarsi in una discussione su quanto si risparmierebbe con la riforma a regime? Poco, molto.
A mio avviso bisogna cambiare il punto di osservazione. Radicalmente.

“Le riforme costituzionali non si fanno per risparmiare” dice Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, ed è un dire sacrosanto. Ci sono “cose”, appartenenti alla vita pubblica, sulle quali non si deve risparmiare. Queste “cose” sono i diritti, che hanno un costo, presuppongono un impegno. Quando esse sottostanno alla logica del comprare (e quindi del risparmiare) automaticamente degradano, non sono più diritti.
Per dirla in maniera più spicciola: il modo in cui si disegnano gli assetti costituzionali di un paese non deve essere condizionato dall’intento di risparmiare ma dalla volontà di approntare procedure e strumenti validi per produrre buone decisioni pubbliche, buone leggi. Se per questo c’è bisogno di risorse, sono i soldi spesi meglio.
L’ideologia del risparmio è perversa, anche.
Un esempio: l’esternalizzazione di una mensa scolastica comporta risparmio, non c’è dubbio, ma (nove volte su dieci) porta con sé la compressione del diritto ad una sana alimentazione per i  bambini e la precarizzazione  dei rapporti di lavoro di cuochi e personale vario. Voi, per i vostri figli, lo fareste questo  risparmio?
A chi ci parla di risparmio dobbiamo rispondere che noi siamo per l’equità, che è tutta un’altra cosa. Per la giustizia. L’ideologia del risparmio calata in un sistema profondamente iniquo come il nostro può generare mostri.
Tornando alla riforma: il presunto risparmio è, a mio avviso,  l’effetto collaterale di una “riduzione” della democrazia e, in quanto tale, è proprio inaccettabile.
Per i fautori del cambiamento in peggio (così comincerei a chiamare quelli del sì) molti risparmi si avranno dalla modifica del titolo quinto della Costituzione. Il “prezzo” da pagare per questo risparmio è la massiccia concentrazione del potere nelle mani dello stato centrale a danno dei territori.
Per inciso: la dialettica territori-stato centrale è definitivamente “asfaltata” dalla cosiddetta clausola di supremazia, in nome della quale il potere centrale può avocare a sé praticamente  ogni  tipo di decisione.
La promessa che sarà il nuovo Senato il luogo in cui avverrà la composizione tra gli interessi locali e quelli della “nazione” è di per sé la conferma che la “periferia” non conterà più nulla: la “rappresentanza” dei territori ( tra l’altro esercitata da “personale politico” non eletto direttamente) confluisce in una camera che, per stessa ammissione dei fautori del cambiamento in peggio, è una camera di serie b che in molte materie non ha alcun potere “contrattuale” di fronte all’altra camera e al governo.
Ecco: questo nuovo assetto fa risparmiare dei soldi, forse ( il risparmio deriverebbe dalla diminuzione, tutta da dimostrare, dei conflitti tra stato e regioni). Ma quanto costa in termini di democrazia, autodeterminazione, bilanciamento dei poteri?
Ogni volta che ci parlano di risparmi dovremmo chiederci: “su cosa stiamo risparmiando?” ; la risposta a questa semplice domanda offre la possibilità di distinguere tra compressione dei diritti e produzione di maggior giustizia.
Stesso discorso per il risparmio frutto del ridisegno del Senato. In questo caso la domanda è: il risparmio compensa il disastroso nuovo procedimento legislativo proposto dagli estensori della riforma costituzionale?
Qui il “regalo” del Governo in carica è  incartato proprio bene: ben 215 senatori in meno, che volete di più? (La mera diminuzione del numero dei politici sarebbe l’acqua santa che trasforma la pessima politica in buona politica).
Poi scarti il “pacco” e dentro ci trovi un nuovo iter per produrre norme e decisioni pubbliche che, in nome del “saper decidere”, strozza ogni dialettica parlamentare, ingarbuglia i procedimenti, mette tutto (ma proprio tutto) nelle mani della maggioranza.
“La riforma è un pacco” ho sentito dire in ambienti non proprio accademici. Definizione poco tecnica ma decisamente aderente alla realtà, secondo me.
Guardi una televendita, ti convince l’abile presentatore, “risparmio un sacco” ti dici, hai anche quella leggera eccitazione (direbbe Gaber). Telefoni e fai l’ordine. Poi, quando scarti il pacco che “celermente” ti è arrivato, scopri che dentro c’è l’esatto contrario di quello che ti avevano venduto.
Non fermatevi alla bella e patinata carta, scartate il pacco prima del 4 dicembre.