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Il corpo rivoluzionario di Maradona

Quando viene a mancare un personaggio dello spessore così caratterizzante per un periodo storico come Diego Armando Maradona, un fuoriclasse sublime dello sport di gran lunga più popolare del mondo, si è come naturalmente spinti a fare un resoconto della propria esistenza, a mettere in una sorta relazione generazionale il come si era, il come si è stato e il come si sarà.

A noi del Collettivo Città Visibile ha dato anche lo spunto per ragionare intorno ad una sempreverde attitudine umana, quella che rifacendosi alla morale tipicamente borghese dei “vizi privati e pubbliche virtù”, ha offerto a molti l’occasione di darsi ad una gratuita esibizione di cattiveria nei riguardi del vissuto di Maradona. Non perdonandogli che i vizi privati di un idolo delle masse venissero così pubblicamente esibiti dalla genuina verità del suo corpo malmesso.

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Il calcio come una rivoluzione

Jongbloed Suurbier Rijsbergen, Haan Krol Jansen Van Hanegem Neeskens, Rep Cruijff Rensenbrink. Nessuna squadra ha impresso il suo marchio rivoluzionario alla storia del gioco del calcio quanto questa. Forse solo un’altra: Grosics Buzanski Lantos, Bozsik Lorant Zakarias Budai, Kocsis Hidegkuti Puskas Csibor. Due squadre che hanno cambiato il corso della storia, Ungheria 1952 e Olanda 1974.  L’Aranycsapat e l’Arancia Meccanica, Gustzav Sebes e Rinus Michels, Ferenc Puskas e Johan Cruijff. Entrambe incompiute, nel senso di non aver vinto la Coppa del Mondo pur essendo le squadre più forti delle rispettive epoche, ma entrambe terribilmente belle.

La leggenda dell’Aranycsapat si snodò attraverso sublimi dimostrazioni di calcio su ogni campo. Tra il 14 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 3-5) e il luglio 1954 (sconfitta nella finale del Mondiale a opera dei tedeschi, 2-3), collezionò 29 vittorie e 3 pareggi su 32 partite con 143 gol fatti e 33 subiti. La stella della squadra era Puskas, ma Gustzav Sebes rivoluzionò lo stato di cose presente spostando Nandor Hidekguti dall’ala (dove giocava con ottimi risultati nell’MTK Budapest) al centro dell’attacco, centravanti arretrato, falso nueve si direbbe oggi. Non più il fromboliere statico d’area di rigore ma un formidabile apriscatole che, attraverso il “movimento organizzato” apriva le porte dell’area di rigore avversaria a Puskas, Kocsis e testina d’oro Csibor. Il mosaico di Sebes, che conteneva il germe di quello che poi sarebbe stato il calcio totale di Michels, prese corpo a poco a poco incantando il mondo alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Vittorio Pozzo commentò nell’occasione di non aver mai visto un calcio così spettacolare e la rivista tedesca “Kicker” scrisse che novanta minuti erano troppo pochi per un football così meraviglioso.

Vent’anni dopo dispiegava la sua forza dirompente l’Arancia Meccanica di Rinus Michels, quella del calcio totale, quella capace di incantare ed incapace di vincere le due finali mondiali del !974 e del 1978. Come l’Ungheria di Sebes, anche l’Olanda di Michels poteva contare su una struttura consolidata di calciatori sopra la media; Honved e MTK Budapest erano l’architrave dell’Aranycsapat, l’Ajax e il Feyenoord lo erano dell’Arancia Meccanica. La differenza era che mentre Sebes iniziò la sua rivoluzione in nazionale, Michels utilizzò proprio l’Ajax come luogo della sperimentazione. E che sperimentazione. A differenza dell’Olanda, infatti, l’Ajax fece incetta di trofei, nazionali e soprattutto internazionali, vincendo tre coppe dei campioni consecutive battendo nelle tre finali, dal ‘71 al ‘73 il Panathinaikos allenato proprio da Ferenc Puskas, l’Inter con due gol di Cruijff nonostante la marcatura di Oriali e la Juventus con la rete di Rep.

Cruijff, nonostante i piedi a papera e le caviglie fragili che gli avevano fatto saltare il militare, tanto nell’Ajax quanto nell’Olanda divenne l’emblema del calcio totale, vale a dire di quel sistema di gioco in cui un calciatore che si sposta dalla propria iniziale posizione è sostituito prontamente da un compagno, consentendo in tal modo alla squadra di mantenere una disposizione di gioco compatta ed efficace. In questo sistema fluido, nessun calciatore ha un ruolo fisso. Non l’anarchia, ma la perfetta combinazione tra il massimo grado di creatività e la necessaria esistenza dell’ordine, di una mappa di regole e valori strutturata ed organica. Un equilibrio che ha consegnato l’utopia di Michels alla storia del calcio, ma se vogliamo, in un certo senso, alla storia del cambiamento sociale. Interessante a questo proposito la teoria emersa qualche anno fa che ha voluto cogliere un legame tra la rivoluzione calcistica di Michels (che non era limitata al rettangolo di gioco ma investiva anche lo stile di vita dei giocatori, più libero e meno legato alle convenzioni sociali del periodo) e quella socio-culturale che in quegli anni il movimento dei Provo (dal francese provocateur) si proponeva di portare in Olanda. I Provo erano un gruppo anarco-surrealista che auspicava il rovesciamento delle istituzioni dell’epoca, reazionarie e repressive. Durarono poco, ma gettarono il germe di una certa “mentalità progressista” che poi ha attecchito successivamente. I Provo e l’Ajax, in particolare Cruijff, accomunati dunque dalla volontà di cambiare, ognuno nel suo campo d’azione, lo stato di cose presente. “La grande lezione che Johan Cruijff ci ha dato” scrisse il giornalista olandese Hubert Smeets (e lo riporta Alec Cordolcini in una sua pubblicazione sul calcio olandese), “è che nello sport, per raggiungere un obiettivo, è necessario combinare individualismo e collettivismo. In un certo senso è quello che predicavano i Provo negli anni sessanta riguardo la vita sociale. Poi però si sono persi: il collettivismo è sfociato nel comunismo, l’individualismo nell’edonismo. Solo Johan Cruijff è stato capace di bilanciare al meglio le due cose”.

Il calcio totale, verbo di Rinus Michels vedeva dunque in Cruijff il direttore sul campo. Fondamentali per la sua applicazione erano i concetti di spazio e creazione dello spazio. Bene ha spiegato la filosofia di Michels e soprattutto il ruolo centrale che dentro di essa aveva Cruijff il difensore dell’Ajax Barry Hulshoff:

“Discutevamo di spazio per tutto il tempo. Cruijff spiegava sempre dove i compagni avrebbero dovuto correre, dove rimanere fermi, dove non si sarebbero dovuti muovere. Si trattava di creare spazio ed entrare nello spazio. È una sorta di architettura sul campo. Parlavamo sempre di velocità della palla, spazio e tempo. Dove c’è più spazio? Dov’è il calciatore che ha più tempo a disposizione? È lì che dobbiamo giocare il pallone. Ogni giocatore doveva capire l’intera geometria di tutto il campo e il sistema nel suo complesso”.

 

Nel meccanismo quasi perfetto ideato da Michels, che chiaramente rivoluzionava i tradizionali concetti di gioco sui quali il calcio europeo fondava le sue certezze, Cruijff rappresentava il genio, il talento che sublimava il gioco collettivo, quella goccia di splendore che rubava l’occhio e consentiva di intravedere possibilità nuove, di vedere il gioco del calcio da un’altra prospettiva. Certo, l’Ajax e l’Olanda, come anni prima l’Ungheria di Sebes, erano squadre composte da grandi giocatori, ma è indiscutibile che le prime senza Cruijff, la seconda senza Puskas non sarebbero state la stessa cosa.

La genialità del singolo dentro lo spettacolo di un’idea di gioco totale, collettiva, dunque. Gianni Brera defini Cruijff “il Pelè bianco”; per tutti è stato il “profeta del gol”, ed in questa definizione risiede in un certo senso l’unicità del fuoriclasse. Si, perché sebbene giocasse da attaccante (prima di indossare, eternamente, il 14, aveva il 9 che poi prese nuovamente al Barcellona) Cruijff non può essere assimilato al centravanti classico e tantomeno ad una seconda punta che gioca in appoggio alla punta centrale, nonostante ciò i suoi numeri fanno impressione: 271 reti in 369 presenze con l’Ajax, 85 in 227 col Barcellona e 33 in 48 con l’Olanda.

Calciatore totale nel calcio totale, Cruijff possedeva tutto: tecnica, velocità, cambio di passo, personalità, carisma, capacità realizzativa ed un gesto tecnico, l’Het Cruijff Draai – la giravolta di Cruijff, vale a dire quella torsione su sé stesso, un’inversione di 180° effettuata toccando il pallone con l’interno del piede – che ha segnato un’epoca. il centrocampista svedese Jan Olsson, che marcò Cruijff durante il campionato mondiale di calcio del 1974 e subì la giravolta, affermò a tal proposito:

“Ho giocato per 18 anni nel calcio di alto livello e per diciassette volte con la nazionale svedese, ma quel momento contro Cruijff fu il momento di cui vado più fiero in tutta la mia carriera. Pensavo che avrei sicuramente recuperato il pallone, ma lui si prese gioco di me. Non mi sentii umiliato. Non avevo possibilità. Cruijff era un genio”. Uno stato d’animo simile a quello dello scozzese Gemmell, il quale dopo Scozia – Irlanda del Nord ad inizio anni ’70 raccontò a proposito della marcatura su George Best: “Non riuscivo nemmeno ad avvicinarmi. Era come provare a catturare il vento. Ho cercato di fare ostruzione col corpo. Di farlo inciampare. Di prenderlo a calci. Non funzionava niente”.

Johan Cruijff e George Best appartengono alla stessa categoria, quella dei geni. Hanno rappresentato quanto di meglio il calcio europeo ha saputo produrre in tutta la sua storia. Genio e sregolatezza, molto più per Best a dire il vero, capacità di indurre al sogno e di superare il perimetro del rettangolo di gioco creando una prosecuzione della realtà attraverso l’induzione all’immaginazione. Chi ha visto giocare Cruijff e Best iniziava la partita svariate ore prima del fischio d’inizio, nell’immaginazione di quello che sarebbe potuto essere. Quanti ne scarterà Cruijff? Quanti tunnel farà Best? Proprio un tunnel lega i due geni: dopo aver fatto passare la palla sotto le gambe dell’olandese in Irlanda del Nord – Olanda del ‘76, Best gli disse: “tu sei il migliore al mondo, ma solo perché io non ho tempo”. Cruijff, da par suo, e in maniera più pragmatica, individuava nel matrimonio una spiegazione alla sua superiorità: “Non credo che ai nostri livelli sia meglio essere scapoli. Guardate George Best, è la dimostrazione che non puoi farcela senza una donna. Vai a farti una bevuta in un bar e sei circondato da gente che ti ama, ma lo fa perché sei famoso. Poi, una volta chiusa la porta di casa, senza una moglie e una famiglia resti solo con i tuoi problemi”. Tre volte Pallone d’Oro Cruijff, una volta Best; tre Coppa dei Campioni Cruijff, una Best. Best ne soffriva.

Non la sregolatezza di Best, ma un carattere fumantino quello sì, lo aveva anche Cruijff. Fu quello a portarlo al Barcellona. Dopo la terza Coppa dei Campioni, vinta da capitano nel 1973, al tramonto dell’epoca di Michels all’Ajax, lo spogliatoio decise che il capitano sarebbe stato eletto. All’Hotel De Lutte ci fu dunque una votazione e dall’urna non uscì il favorito Johan Cruijff bensì Piet Keizer. Il messaggio appare chiaro: Cruijff è il simbolo dell’Ajax ma non il leader dello spogliatoio. È la rottura, Cruijff chiama il suocero: “Telefona a Barcellona, io da qui me ne vado”. Categorico.

E a Barcellona inizia un’altra epopea, prima da giocatore poi da allenatore. I tifosi azulgrana lo ribattezzano “El Salvador”, ma oltre al campo, incide profondamente anche sul piano politico diventando il simbolo della resistenza anti-franchista. Arrivato in Catalogna dopo una lunga “guerra” tra Real Madrid e Barcellona, Cruijff non ebbe remore a dichiarare di aver scelto il Barcellona e non il Real perché mai avrebbe potuto giocare per una squadra associata a Francisco Franco. Nella memoria dei tifosi restano un 5-0 inflitto al Bernabeu all’odiato Real, un gol con una rovesciata di tacco quasi dalla linea di fondo contro l’Atletico, una Coppa di Spagna e una Liga spagnola da giocatore (dopo dodici anni di astinenza), quattro Liga, quattro Supercoppe di Spagna, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea da allenatore. Tuttavia più importante di tutto questo per i tifosi del Barcellona, è stata la scelta di chiamare il terzo figlio Jordi, in un’epoca in cui l’uso della lingua catalana era proibita dal regime spagnolo.

Johan Cruijff ha segnato un’epoca, anzi ha segnato in profondità la storia del gioco del calcio.

Morto un Johan Cruijff non se ne fa un altro. Il giocatore di calcio che, insieme a George Best e appena dietro a Diego Armando Maradona, ha rappresentato meglio la dimensione sublime, quasi metafisica, del calcio.

Cruijff sta al calcio come Marx sta alla filosofia, come Picasso alla pittura, come Mozart alla musica.

Tra mille anni se parlerà come fosse oggi.