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Parigi, Charles Baudelaire e la coperta corta del mondo

Ô douleur! ô douleur! Le Temps mange la vie,
et l’obscur Ennemi qui nous ronge le coeur
Du sang que nous perdons croît et se fortifie!
— Charles Baudelaire, Il nemico*

13/112015. Sette attacchi terroristici congiunti rivendicati dall’Isis hanno colpito al cuore la città di Parigi provocando la morte di 129 persone e il ferimento di altre 300. Questo attacco criminale che ha sconvolto l’intera Francia, provocando sconcerto per la maniera relativamente semplice con cui è stata attentata la vita ordinaria di una grande metropoli occidentale, non rappresenta altro che un’ulteriore tappa di quella “arte” di fare guerra che da sempre si accompagna alle vicende umane nel mondo. Nel corso della sua tragica storia, la guerra ha spesso cambiato forma, modalità di esecuzione e finalità da perseguire, finendo per diventare oggi qualcosa di molto diversa da quella cui siamo stati abituati a conoscere sui libri di storia.

Almeno fino al secondo conflitto mondiale, la guerra era una cosa chiara, dai contorni facilmente definibili, si sapeva chi combatteva contro chi e perché, il conflitto era “ritualizzato” da regole accettate da ognuno, era possibile sapere quando una guerra iniziava, quando veniva stipulato un armistizio e quando terminava. Poi è iniziata la cosiddetta “Guerra Fredda”, con le due super potenze, Usa e Urss, a spartirsi il mondo in due distinte sfere di influenze. Teatri di guerra sono diventati principalmente l’Africa, l’America Latina, il Sud-est Asiatico, il Medioriente, dove, nel susseguirsi vorticoso di colpi di Stato, le due super potenze hanno mostrato il peggio di loro stesse per la salvaguardia dei rispettivi interessi internazionali. Quindi, con la dissoluzione dell’impero sovietico, e il relativo predominio politico e culturale degli Usa, il mondo è diventato più instabile per effetto dell’emergere esponenziale di tanti particolarismi nazionali.

Col termine “Balcanizzazione del mondo”, ci si riferisce appunto alle spinte autonomiste di diversi popoli i quali, svincolatosi dalla “tutela” coatta che erano costretti a subire, tendono a trasformarsi da entità nazionali a Stati indipendenti riconosciuti a livello internazionale. Passaggio che è quasi sempre avvenuto attraverso sanguinose guerre fratricide. La fine di un controllo politico imposto dall’alto ha consentito l’emergere di “neo” potentati economico-finanziari che in molte realtà territoriali, speculando sulla “verginità” economica dei “nuovi mercati” da conquistare e sul vuoto di regime ereditato, piuttosto che accompagnarle nel processo di progressiva democratizzazione dei rispettivi apparati statuali, hanno favorito, in maniera più o meno diretta, la nascita e la proliferazione di nuove forme di radicalismo politico. Quindi, la guerra è diventata quella che conosciamo oggi, una guerra che da “posizione” diventa più di “movimento”, dove il nemico da combattere non necessariamente corrisponde ad un’entità Statale vera e propria, dove vengono colpite più delle popolazioni inermi che obiettivi militari situati in territorio nemico. Una guerra fatta dal e contro il terrorismo che, dopo più cinquant’anni, coinvolge più direttamente l’Occidente ricco perché è contro la sua cultura secolare che i professionisti del fanatismo religioso scagliano i loro anatemi. Una guerra dalla natura sfuggente perché non è dato mai sapere il come e il quando produrrà la sua dose di morte e terrore e perché più complessi ed ambigui vanno facendosi gli intrighi di potere della geopolitica mondiale. Una guerra asimmetrica perché ognuno combatte con le armi che possiede seguendo la propria strategia bellica, combattuta indistintamente in qualsiasi parte del mondo, laddove sono resi necessari e contingenti i suoi effetti destabilizzanti. Una guerra di tipo psicologico che quando non deflagra in fatti criminali si mantiene bene in vita agendo a bassa intensità, perché tutta giocata sulla percezione che si deve avere del nemico e perché molto investe sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa.

Per opera di fanatici fondamentalisti o di “bombe intelligenti”, la guerra contemporanea ha come effetto tragico immediato quello di produrre in serie vittime totalmente esterne al conflitto. Perché il suo scopo precipuo è quello di iniettare nel tessuto quotidiano un’impercettibile sensazione di paura, di generare il timore di instaurare un rapporto normale con le forme della città, diffidenza nel diverso, odi razziali, contrasti culturali, dissidi etnici. In nome di un Allah profeta dell’Islam, i cui adepti fondamentalisti riconducono tutta la complessità interpretativa alla sola componente jihadista, o per conto di un’idea di pacificazione planetaria che si vorrebbe costruire facendola combaciare ad un unico modello economico-culturale, la guerra contemporanea si arroga quasi sempre il diritto di combattersi per nome e per conto di interi popoli che sono quantomeno estranei alle logiche sotterranee che ne motivano le modalità di esecuzione.

Il fatto è che, per molti secoli, i popoli sono stati abituati a subire passivamente la guerra, arrivando a partorire nei sui riguardi un rapporto fatalistico, come di una cosa ineluttabile. Ci si sentiva in guerra per il semplice fatto che il proprio paese l’aveva dichiarata a qualcun’ altro, ma, in concreto, la combatteva solo chi era partito per il fronte, chi era in trincea a scambiarsi pallottole con il nemico. Oggi, la guerra la si subisce per quella quota che ci vede direttamente coinvolti, per il resto, rimane un punto fisso nella cultura dei popoli per il fatto che ad ognuno viene chiesto di ergersi a partigiano di un particolare stile di vita, di difenderne i valori fondativi. Quando accadono eventi come quelli di Francia, le sapienti regie mediatiche, le stesse che molti altri casi simili in giro per il mondo fanno rimanere ignominiosamente nel dimenticatoio, chiedono a tutti di trasformarsi in spettatori-combattenti, indistintamente, ognuno per quello che può e come sa, arrivando ad insinuare il ricatto morale che è da considerarsi un nemico del proprio popolo chiunque non accetti di difendere acriticamente il sistema di valori di cui è portatore.

Non può esistere motivo alcuno che possa giustificare qualsiasi attentato terroristico, rimane una barbarie da condannare senza indugi. Ma un problema, qualsiasi problema, se non viene capito per quello che realmente è, e chiamato col nome che merita, neanche si può pensare di risolverlo.

Di fronte a quanto accaduto a Parigi, il punto non è mettere in discussione la legittimità di ogni Stato sovrano di praticare la politica estera più idonea ai propri interessi nazionali, ma capire che in guerra ognuno combatte con le armi che possiede, che la violenza alimenta altra violenza, che l’uso di un linguaggio violento incattivisce gli animi, corrompe le coscienze, intorpidisce l’intelligenza.

Rispetto al crimine rivendicato dai terroristi dell’Isis, più importante di definire quante colpe ha avuto l’Occidente nel non aver saputo analizzare adeguatamente il fenomeno e nel continuare nell’abitudine di coltivare delle serpi in seno che poi, sistematicamente, gli si rivoltano contro, è prendere atto che in guerra, qualsiasi azione prodotta, risponde a delle logiche di potenza che ognuno contribuisce a porre in essere. Ognuno può decidere di schierarsi come meglio crede, ma, in ogni caso, resta il fatto inopinabile che la guerra genera morte e che la morte chiama altra morte.

Insomma, la guerra è, fosse solo perché, gli interessi economici di uno Stato, la necessità di trovare nuovi sbocchi alle capacità produttive interne, le politiche di dominio territoriale, l’accesso alle risorse ritenute strategicamente vitali per lo sviluppo economico di una nazione, sono da sempre gli elementi sufficienti volti ad offrirgli una sorta di giustificazione morale perpetuandone l’esistenza lungo tutto il corso della storia umana.

Se si vuole che la guerra non sia ciò che è sempre stata, occorrerebbe disinnescarne a monte gli effetti deflagranti che, nella fattispecie contemporanea, potrebbe significare fare in modo che questi professionisti del terrore rimangano soli con i loro deliri di onnipotenza, senza alcuna possibilità di rimpinguare le fila degli adepti facendo presa su quella massa di diseredati tenuti a debita distanza dalle ricchezze del pianeta. Il terrorismo si nutre da sempre delle contraddizioni del mondo, incarnandone la faccia più funesta.

Occorrerebbe diminuire la forbice tra nord e sud del mondo, tra chi ha tutto e pretende di avere sempre di più, e chi rimane avido di benessere.

Occorrerebbe perciò aprirsi al mondo e alla sua complessità, non rinchiudersi in se stessi e acuire paure costruite ad arte.

Detto altrimenti, un mondo il cui sistema economico che lo permea genera continue diseguaglianze economiche ed iniquità sociali, non può pretendere di essere pacificato. È come la coperta corta che non può prescindere dai suoi limiti strutturali e, quindi, mostrarsi in tutta la sua deleteria inconsistenza.

Dal mio punto di vista, occorrerebbe fare tante cose per cercare di depotenziare a monte gli effetti tragici della guerra, tutte cose dal vago sapore utopico probabilmente, ma che intanto esprimono la volontà di iniziare un processo di progressiva e più proficua umanizzazione del mondo. Volontà che qualsiasi gestore del potere non ha ancora mostrato di praticare. Perché, sia detto per inciso, i “capi del vapore”, nel pieno esercizio delle loro funzioni, hanno una fondamentale facoltà in loro possesso: quella di ricondurre l’agire politico ad un puro atto volontaristico.

Intanto che qualcosa di buono accada, di fronte alla morte gratuita di tanti innocenti, piuttosto che sparlare a vanvera e arringare le folle facendo propagandisticamente leva sull’onda emotiva del momento, e molto preferibile rimanere in silenzio per qualche giorno come segno tangibile di sentito cordoglio. Credo sia il modo più sincero per portare rispetto alle vittime francesi di questa “guerra globale”. E alla stupenda Parigi, culla di arte e bellezza, la città in cui ogni amante devoto della cultura vorrebbe vivere.

 

* Ho dolore, dolore! Mangia il tempo la vita, / e l’oscuro Nemico che ci rosicchia il cuore / col sangue che noi perdiamo cresce, si fa forte! [top]

 

La dimenticanza

Per carità, non bastano le lacrime che abbiamo per piangere gli uomini e le donne morte nell’abominio parigino. Troppo spesso ci diciamo che “non dobbiamo dimenticare”. Tuttavia l’esercizio della dimenticanza è pratica in cui eccelliamo in questo nostro occidente opulento e abominevole.

Pare quasi che il tempo sia ridotto all’istante in cui le cose accadono, pare quasi che la storia perda profondità e si manifesti esclusivamente nel presente, nel mentre le cose accadono. Eppure quello che accade sempre contiene delle domande e spesso è frutto delle risposte.

Allora possiamo capire quello che accade oggi, qui e ora, se dimentichiamo? Possiamo lasciarci andare al tumulto delle sensazioni come fossimo nati oggi e solo oggi conoscessimo l’orrore? Possiamo pensare che quell’orrore lo abbiamo subito e che mai lo abbiamo creato? Possiamo scadere nella rappresentazione bestiale che getta odio nell’odio a riempire il calderone?

No! Per essere conseguenti dovremmo interrogare il passato per cercare di comprendere il presente e costruire brandelli di futuro.

Dovremmo “non dimenticare”. Non dimenticare che il terrore è pratica che l’Occidente conosce bene, da Hiroshima e Nagasaki per restringere il tempo alla contemporaneità; che troppo spesso abbiamo usato la geometria variabile dell’interesse brandendo la spada con una mano e fingendo la democrazia con l’altra.

Troppo spesso abbiamo considerato le morti, morti nostre o morti loro.
In questo secondo caso ce ne siamo allegramente fottuti. E continuiamo a farlo.

La storia insegna ma non ha scolari, diceva Antonio Gramsci. Appunto.
Il globo diviso in etnie, in razze, in colori, in religioni, in classi, ma questo non si puó dire. Da una parte peró c’è chi sfrutta, depreda e accumula, dall’altra chi accumula si, ma l’odio, il rancore, la vendetta.

Sicuri di essere dalla parte buona del mondo, abbiamo esportato le nostre ragioni e i nostri conti in banca a suon di cannoni, di proiettili, di grappoli di bombe.

Abbiamo seminato morte, corpi straziati, lamenti di bambini e di chi è rimasto.

Fumanti ancora sono i campi afghani e iracheni, quelli libici, siriani e di qualche altro altrove. Li abbiamo seminati a sangue.

Davvero abbiamo creduto che mai ne venisse una reazione opposta e contraria? Davvero abbiamo creduto che qualcuno, in quelle terre, credesse che ci importasse più degli esseri umani che dei pozzi di oro nero? Che il problema per noi fosse un Saddam in più o un Gheddafi in meno, dopo averli blanditi, foraggiati e applauditi quando non servivano bombe per fare affari, perchè il denaro, si sa, è il comune feticcio di tutti gli uomini?

È poi? E poi la Palestina.

Luogo di martirio, terra umiliata e offesa in nome di Dio. Ah, se Dio scendesse in terra a dire: “non esisto!”

Tutti i giorni, ogni giorno esercitiamo la dimenticanza e gli altri, quelli buoni per tutte le stagioni, esercitano la menzogna a tutto spiano, la realtà mutilata, sfregiata.

La Palestina ridotta a striscia, brandello di terra. Muri, muri, muri. Spiragli nei muri. Blocchi. No, no, no, non puoi camminare nella tua terra.

I coloni. Ma chi sono, i coloni?

I coloni colonizzano?

E cosa si colonizza? La terra propria o la terra altrui?

E noi dividiamo il giusto dall’ingiusto?

Non sono morti nostri quelli che come mosche cadono con una pietra in mano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania?

Facciamo fatica a chiamarlo genocidio per esorcizzare le nostre colpe, come se evitando la durezza della parola scomparisse il contenuto, il senso, il fatto.

Invece non scompare nulla, non scompaiono le strade lastricate di sangue, i morti bambini alla fermata del tram, quel lembo di terra rimasto di una terra che era grande, qualche anno fa.

E allora fermiamoci. Piangiamo pure, ma in silenzio.

Quando non siamo capaci di parole o non abbiamo il coraggio delle parole che andrebbero dette allora dobbiamo tacere.

Restiamo umani, diceva il poeta. Non dimentichiamo, dico io.

Che poi è la stessa cosa.

El rey del metro cuadrado

Storia di Carlos Caszely e Salvador Allende. E della dignità.

Il Cile è un paese dalla strana geografia. È il più lungo e il più stretto del pianeta. Dalle Ande all’oceano il passo è breve. È un paese di storie grandi e di grandi passioni, è la terra che ha dato i natali a Nicanor Parra, a Gabriela Mistral e Pablo Neruda, terra di poeti dunque. A Valparaiso è nato Salvador Allende, primo marxista eletto democraticamente nella storia del genere umano.

Ma in Cile è nato anche Carlos Humberto Caszely, giocatore di futbol, el rey del metro cuadrado, tanto era implacabile nell’area di porta avversaria.

Nel 1970, aveva vent’anni, giocava e faceva gol nel Colo Colo, la squadra più prestigiosa del Cile. E votava per la Unidad Popular, la coalizione che includeva comunisti, socialisti e forze progressiste e che sosteneva Salvador Allende alla presidenza del Cile.

Allende vinse. El pueblo unido jamas serà vencido cantavano gli Inti Illimani. Caszely era un uomo del popolo, aveva vinto anche lui.

Era pericoloso Salvador Allende. Faceva paura. Perché mirava si a trasformare la società cilena, a “fare il socialismo”, ma prima ancora mirava a creare un uomo nuovo, che prendesse coscienza delle proprie potenzialità e liberasse la sua creatività, che si spogliasse di quella stupidità data dal vivere per avere o per guadagnare, perché si vive semplicemente per vivere, come la farfalla vola senza sapere di volare e il bambino gioca senza sapere di giocare. E cercava di farlo senza importare modelli precostituiti, né quello sovietico, né quello cubano. Quando Ernesto Guevara gli regalò il suo libro La guerra di guerriglia, scrisse nella dedica: “A Salvador Allende, che con altri mezzi cerca di ottenere la stessa cosa”.

Pablo Neruda diceva che Allende era un poeta, “el poeta eres tù” gli diceva. In effetti era così. Come un poeta, Allende sognava, e nel tradurre il sogno coinvolgeva migliaia di cileni che, insieme a lui, andavano a fissare lo sguardo un po’ più in là, quasi a voler indovinare un altro mondo possibile.

Faceva paura Salvador Allende. Per questo Augusto Pinochet, la mattina dell’11 settembre 1973, salvò la democrazia cilena. Assassinandola.

Tutto torno al suo posto. Nella città di Santiago lo stadio venne trasformato in mattatoio. Migliaia di prigionieri, stipati sulle tribune, attendevano che si decidesse il loro destino. Devastarono case e circoli i salvatori della patria. Bruciarono i libri.

I soldati strappavano i pantaloni alle donne gridando che in Cile le donne dovevano portare abiti femminili. I poveri tornarono ad essere poveri, come sempre.

A Washington il lavoro svolto fu molto apprezzato: “Negli Stati Uniti, come lei sa, signor Pinochet, siamo favorevoli a ciò che sta facendo. Esprimiamo al suo governo i nostri migliori auguri”. Henry Kissinger, insignito del Premio Nobel per la pace, battezzava la “ritrovata” democrazia cilena in nome degli Stati Uniti d’America. D’altronde proprio non poteva accettare che “un paese diventasse comunista per l’irresponsabilità del proprio popolo”.

In diciassette anni, migliaia di cileni sono morti sotto Pinochet. Più di 1.100 sono “desaparecidos”. Numerose altre migliaia hanno subito la tortura, il carcere o l’esilio. Un patrimonio secolare di conquiste sociali e democratiche è stato sanguinosamente disperso in un rapido volgere di tempo, e al suo posto è stato edificato un nuovo ordine, rigorosamente capitalistico.

In quel 1973 Carlos Caszely continuava a fare gol, era il suo mestiere, il punto finale del suo pensiero. Era il padrone del metro cuadrado. Viveva per buttare dentro il pallone. Regalava la gioia (ma anche la disperazione). D’altra parte scriveva bene Eduardo Galeano: “Il gol, anche se è un golletto, risulta sempre un goooooooooooool nella gola dei radiocronisti, un “do di petto” capace di lasciare Caruso muto per sempre, e la folla delira, e lo stadio dimentica di essere di cemento e si stacca dalla terra librandosi nell’aria”.  Faceva gol Carlos Caszely, ma non rinunciava ad esprimere le sue idee ed anzi si impegnava in prima persona perché prevalessero le ragioni dell’uguaglianza e della libertà dal bisogno. Nelle elezioni del marzo, infatti, sostenne apertamente Gladys Marin e Volodia Teitelboim, candidati del Partito Comunista e contribuì, di fatto, ad uno straordinario risultato della Unidad Popular che, addirittura, a pochi mesi dal golpe e tre anni dopo il trionfo di Allende vedeva aumentare il proprio consenso tra i cileni. Ma il golpe spezzò il sogno.

Caszely firmò per il Levante, nella seconda divisione spagnola, perché in Cile ormai, non c’era più posto per lui, Carlos “il rosso”. Ma pensò che non poteva lasciare il Cile senza prima dare pubblicamente un segno di cosa pensava di Pinochet, doveva fargli uno sgarbo. E l’occasione si presentò quando il dittatore ricevette la Nazionale cilena prima che partisse per Mosca, dove si sarebbe giocata l’andata di una delle qualificazioni al Mondiale più politicizzate della storia. “Pinochet non era stupido, già sapeva che non l’avrei salutato”, raccontò Caszely qualche anno dopo. “Così camminò davanti alla squadra, e tutti gli diedero la mano, ma io rimasi con le mie dietro la schiena. Passò oltre e sorrise a mezza bocca”. Il Cile strappò un eroico 0-0 allo Stadio Lenin e doveva giocarsi l’accesso al Mondiale nella partita di ritorno, allo Stadio Nacional il 21 novembre 1973. In quello stesso stadio, fino ad un mese prima, i militari avevano torturato e ucciso Victor Jara e insieme a lui centinaia di comunisti, socialisti, studenti e militanti.

I sovietici, anche per questo, chiesero che la partita si giocasse in campo neutro, ma la Fifa si oppose e dunque non si presentarono a Santiago. Pinochet però organizzò un simulacro di partita in cui i calciatori cileni giocarono senza rivali e segnarono un gol a porta vuota. Tra loro c’era anche Caszely, stavolta rosso di vergogna. Non se lo perdonò mai, e insieme a lui il suo compagno Hector “Chamaco” Valdés, capitano della nazionale cilena, che proprio dallo Stadio Nacional, due settimane prima di quell’incontro mai giocato, era riuscito a tirar fuori, dopo giorni di torture, Hugo “Chueco” Lepe, ex difensore del Colo Colo, poi impiegato al Ministero delle Opere Pubbliche nel governo Allende e dunque arrestato.

Parti per la Spagna, dunque. Giocò nel Levante e nell’Espanyol. E fece gol, come sempre. Tornò nel ’78, sempre al Colo Colo, sempre rey del metro cuadrado. Tuttavia era ormai il nemico giurato dei militari per cui la sua carriera in Nazionale fu sempre contrastata. Per andare al Mondiale del ’74, Caszely dovette pagarsi il biglietto aereo e fu letteralmente annichilito dai media cileni, praticamente tutti schierati con i militari, in particolare da El Mercurio, quando venne espulso nella partita con la Germania Ovest. In quella partita fu preso a calci senza soluzione di continuità da Berti Vogts (che quattro anni più tardi si chiedeva cosa non andasse nell’Argentina dei militari e dei desaparecidos) fin quando non reagì e venne espulso. Ostracismo che continuò anche dopo che, nel 1979, venne eletto miglior giocatore della Coppa America che il Cile perse in finale contro il Paraguay.

La sua partita d’addio, che il Colo Colo giocò il 12 ottobre 1985 contro una squadra di stelle sudamericane accorse a rendergli omaggio, si trasformò in un atto politico contro la dittatura cilena.

Caszely non perse mai la speranza che potesse tornare la democrazia nel suo paese. Sapeva, in cuor suo, che il sogno della Unidad Popular, di Salvador Allende e Pablo Neruda non sarebbe più tornato, che quel treno, che passa una sola volta nella storia di un paese, ormai il Cile lo aveva perso. Ma doveva fare qualcosa, trovare il momento giusto e mischiarsi col suo popolo per abbattere il tiranno.

E il momento arrivò nel 1988, quando Caszely si impegnò nella campagna per il referendum concordato tra i militari e l’opposizione, attraverso il quale i cileni avrebbero deciso se mantenere al potere Pinochet fino al 1997 o se aprire un processo democratico. E lo fece rivelando ai cileni le torture e le violenze che aveva subito dieci anni prima sua madre, Olga Garrido, con la quale comparve più volte in televisione a raccontare quello a cui troppi cileni, dopo sedici anni di dittatura, si erano ormai assuefatti.

Il NO trionfò in quei giorni furenti e belli narrati così bene da Pablo Larrain. Furono i giorni dell’arcobaleno. E Caszely si tolse un peso. Pensò a Salvador Allende. Lo fa spesso.

Potè tornare a sentirsi orgoglioso del suo paese.

Lei, sempre con la sua cravatta rossa. Non se ne separa mai” gli disse un giorno Pinochet. “E’ vero, la porto sempre accanto al cuore” gli rispose Caszely. “Io gliela taglierei quella cravatta” sorrise in maniera macabra il dittatore facendo il gesto delle forbici.

No, non gliel’ha tagliata.

Quella cravatta rossa, Carlos Caszely el rey del metro cuadrado, la porta ancora.

Accanto al cuore.

Pier Paolo Pasolini il Poeta

Mi manca Pier Paolo Pasolini.

Mi mancano la sua lucidità analitica, le sue invettive anticonvenzionali, il suo sguardo poetico sulla realtà, il suo coraggio da combattente inerme. Mi mancano la gentilezza della sua voce, le sue parole dissacranti, la sua chiarezza intellettuale, la sua intelligenza viva. Mi manca la sua rabbia mai sottomessa ai compromessi di comodo, la sua intransigenza ideologica, il suo modo di proclamarsi Marxista. Mi mancano il suo saper essere “apocalittico” senza mai dare giudizi morali, il suo saper scandalizzare gli ipocriti, scuotere le intelligenze sonnacchiose. Mi manca la disarmante semplicità con cui rivolgeva la sua attenzione verso gli ultimi. Mi manca il suo umanesimo intriso di sano amore per la vita.

Si sa, per definizione, il prodotto artistico non muore mai, rimane eternamente uguale a se stesso. I libri che ha scritto Pasolini si possono trovare tranquillamente nelle librerie, così come i saggi critici a lui dedicati, i film che ha girato sono facilmente reperibili nelle videoteche, la rete poi, consente di riascoltare ogni sua intervista, rivedere ogni sua apparizione televisiva. Insomma, l’arte di Pasolini rimane una cosa presente, alla portata di chiunque, è lì, nei musei del sapere, a fungere da stimolo critico perpetuo. Ma è proprio questa consapevolezza di poter disporre a piacimento di frutti gustosi senza poterne coglierne di nuovi a farmi sentire come un orfano impertinente che, nel mentre nutre il bisogno di rifugiarsi nella sua arte, sa di non potersi fregiare più di una coscienza critica che si rinnova giorno dopo giorno.

Mi ha sempre interessato poco la figura del “martire” sacrificato sull’altare delle contraddizioni italiche, figura sapientemente costruita postuma e attraverso cui si tenta di ripulire tanta di quella coscienza sporca che, imperitura, serpeggia lungo il nostro paese. E neanche mi sono accodato mai a quanti ne hanno voluto fare un santino da esporre alle feste comandate senza, magari, conoscerne adeguatamente la poetica. A me Pasolini manca perché mi ha sempre interessato come cosa concreta e contingente, come una cosa tangibile in cui poter ricercare un punto di vista sullo stato delle cose e verso cui tendere nei momenti di massimo sconforto morale. In questi tempi contemporanei poi, attraversati da innumerevoli crisi senza facce e senza padroni, crisi dispensate a gratis che fanno tante vittime ma non hanno alcun padre riconosciuto. Spesso mi capita di dire “come dice Pasolini” e non, “come diceva Pasolini”, volgendo, cioè, il tempo verbale al presente e non al passato, perché la sua opera è tremendamente attuale e, credo, che pochi uomini di cultura possano vantare un’autorevolezza intellettuale così capace come la sua di resistere bene all’usura del tempo.

Oltre quarant’anni fa, da ateo materialista, Pasolini ha parlato di religione demistificandone la portata “divina” per ricondurla tutta al senso del sacro presente in ogni presenza del mondo; ha parlato di “genocidio culturale della civiltà contadina”, prodotto dall’insistere incipiente della società dei consumi, per mettere in guardia un intero paese che, con quel mondo culturale, oltre a perire quanto di più genuino e semplice v’era nella natura umana, si rischiava di dissipare l’ultima possibilità offerta all’uomo di riconoscere il proprio legame indissolubile con la terra, la lealtà delle sue origini, l’attenzione cosciente verso il passato. Nel bel mezzo di un’Italia inondata dal “miracolo economico”, Pasolini osservava che, le legittimi aspirazioni piccolo borghesi di migliorare la propria condizione sociale, se non sorrette da un’adeguata emancipazione etica della persona, rischiavano di trasformarsi in adesione acritica ad un modello di società di cui si conosceva solo la patina esteriore di un perbenismo ostentato; ha descritto il potere come quella forza “verticistica” che tende a “cannibalizzare” ogni agente estraneo all’idea di ordine sociale che intende imporre. Ha tuonato contro la natura omologatrice della classe borghese la quale, agendo allo scopo di svuotare di forma e contenuto ogni forma di sapere a lei alternativo, tende a generare quel vasto campo ”dell’assolutamente indifferenziato” in cui tutto diventa la diretta promanazione del suo arbitrio, il frutto di una volontà eterodiretta che domina su una massa informe. Più di quarant’anni fa, da “semplice” osservatore della realtà, Pasolini ha definito la deriva consumistica, legata al conformismo culturale imposto dalle classi sociali dominanti, soprattutto, attraverso il mezzo televisivo, come una forma di fascismo ancora più pericolosa di quella già conosciuta durante il “ventennio”. Ha mostrato la naturalezza di corpi nudi, la verità nello scandalo, per mettere a nudo l’ipocrisia reazionaria della morale borghese.

Poco mi consola sapere che, al giorno d’oggi, sono rinvenibili chiari i segni che mostrerebbero l’esattezza di molte sue analisi, e che in esse si possono trovare gli strumenti critici per meglio riflettere sullo stato delle cose. Perché, con l’assenza fisica di Pier Paolo Pasolini, quella che viene essenzialmente a mancare è la presenza di una voce illuminata che sappia ergersi contro la mediocrità imperante e il buio che avanza. A quarant’anni dalla sua tragica morte, e a circa venti da che mi sono avvicinato coscientemente alla sua arte, mi manca un intellettuale tout-court: il romanziere, l’autore di cinema, il giornalista, l’analista politico e di costume, l’eretico consapevole, il marxista anarchico, il pensatore che scuote le coscienze, l’uomo buono, la sponda sicura cui attraccare nei momenti di solitudine.

Mi manca un Poeta.

Pubblicato anche su FilmTV

La coperta corta

Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a mietere quello che abbiamo piantato.
— Antico Proverbio Cinese

Per l’amministrazione Mozzillo è arrivato il momento della mietitura: quello che raccoglieranno però non è quello che hanno seminato ma ciò che, ad ogni modo, hanno contribuito a piantare.

Il dubbio: aspettare il decreto di scioglimento del Consiglio Comunale, che sancirebbe la fine politica di molti dell’attuale amministrazione oppure dimettersi a cinque mesi dalle elezioni, dando nei fatti ragione a chi, fin dall’inizio, aveva denunciato la natura “carnevalesca” dell’ultima tornata elettorale? E attorno a questa coperta che si fa sempre più corta assistiamo, in seno alla maggioranza, ad un teatrino imbarazzante di vecchia politica: tutti contro tutti per cercare di uscire quanto più puliti possibile dalla valanga di fango che sta per essere versata su Orta di Atella.

Un vero e proprio ceto politico tra le mura di viale Petrarca che, evidentemente, non considera  la memoria storica di una popolazione che non può più fingere di non sapere da chi è stata amministrata negli ultimi venti anni e che deve riconoscere dietro le nuove facce pulite le ombre dei vecchi portatori di voti: realmente questi signori credono di potersi riciclare come novelle vergini invocando, ancora una volta, la scelta del meno peggio?

Sappiamo benissimo quali sono le responsabilità di chi ha amministrato il nostro paese, ma non si può far passare che il tutto sia opera di un uomo solo al comando: c’è un’intera classe politica, tutta rappresentata con volti vecchi e nuovi, nelle liste del sindaco Mozzillo, che ha pari responsabilità; ci sono persone che pur stando fuori dagli organi di governo hanno dettato tempi e modi, condizionato decisioni ed affari e che, oggi, non si possono spacciare come “il meno peggio”.

Di “meno peggio” il nostro paese è morto ed è triste che questo non sia stato capito nemmeno dagli esponenti del Movimento 5 Stelle che, trascinati in una guerra tribale, si sono disintegrati in bande che rievocano la Prima Repubblica.

Sono partigiano, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo.
— Antonio Gramsci

Non si può restare indifferenti in questa fase storica, per dirla con Antonio Gramsci.. Bisogna essere in grado di scindere i fatti dalle opinioni e tenere a mente il passato per costruire il futuro. Il Collettivo “Città Visibile” ha scelto di stare dalla parte del nostro paese, delle sue esigenze e di quelle dei suoi cittadini. Ha scelto di spiegare e denunciare quello che accade ora che la nave del potere sta affondando e, come dice lo scrittore, i topi ballano e cercano di salvarsi dal naufragio.

Verrà il tempo della proposta, non ci sottrarremo. Siamo nati per questo. Ma oggi occorre chiarezza ed è simbolico che la chiarezza, nel quadro politico di Orta, la si debba attendere dalla Commissione d’Accesso e dall’Organo Straordinario di Liquidazione. E noi l’attendiamo, non per vendetta e nemmeno per ritorsione.

Perché è venuto il momento di riprendere in mano il telaio del futuro e, sebbene si tratterà di una tessitura lenta e complessa, le forze sane e democratiche di Orta di Atella sono chiamate a assumersi la responsabilità del cambiamento. Non ci sono alternative.

Il futuro è qui.

La Memoria Immemore

Sono stato anch’io al teatro cinema Lendi a vedere “La via nova”, il film diretto dai coniugi Michele Cinqugrana e Concetta De Cristofaro che racconta della triste vicende dei cosiddetti “martiri atellani”, 25 persone innocenti che morirono sotto i colpi della ferocia dei nazi-fascisti. La storia è nota un po’ a tutti: l’esercito tedesco di stanza sul territorio atellano, dopo che un gruppo di persone armate alla meglio fecero un’azione di rappresaglia contro un camion militare tedesco, facendo sparire sia l’automezzo con quanto vi era caricato che il suo conducente, risposero con una dura repressione prendendosela indiscriminatamente con chiunque fosse capitato sotto la loro dimostrazione vendicativa. Il dato certo è la morte per mano tedesca di 25 persone innocenti, sono i contorni a rimanere nebulosi, frutto di una trascrizione orale che ha sempre fornito elementi tra loro contraddittori. Non è un caso che il film si chiuda con la testimonianza di alcune delle persone che il clima convulso di quei giorni l’hanno vissuto sulla propria pelle, testimonianze che, appunto tendevano a contraddirsi fra di loro e, quindi, a contraddire alcune scelte di scrittura adottate per il film. Una scelta felice secondo me, che ha ulteriormente dimostrato l’umiltà d’intenti degli autori per i quali (sempre secondo il mio punto di vista, s’intende), “La via nova” è stato costruito intorno ad alcune ipotesi possibili e non intende affatto porsi come verità unica ed oggettiva.

L’impressione che ne ho ricavato è quella di un prodotto di buon artigianato, un film onesto che non ambisce certamente ai festival ma semplicemente a corrispondere alla sana passione di chi l’ha realizzato. Insomma, un film diretto ed interpretato da non “professionisti” del settore ma gestito nel suo insieme composito in maniera professionale.

Ma sono anche altre le impressioni che ho ricavato dalla serata al cinema, frutto diretto di una partecipazione emotiva di cui si poteva avvertire nitida la presenza e da cui si poteva facilmente venire coinvolti (ci sono fondati motivi per ritenere che la stessa cosa sia successa anche nelle serate precedenti, anch’esse esaurite negli oltre 300 posti a sedere). Per tanta e tale partecipazione popolare, ha certamente inciso abbastanza la “località” del prodotto, la presenza indispensabile di amici e parenti dei tanti attori presenti nel film (sono 109), il passaparola capillare e continuo. Ma credo che il motivo principale sia da ricercarsi nel fatto che la storia rappresentata dal film, ognuno dei presenti, se l’è sentita raccontare direttamente dai propri nonni, ed è perciò che, in ognuno, è come sorta l’urgenza di doverci essere ad ogni costo a questa originale forma di aggregazione “paesana”: per vedere come sarebbero state riprodotte al cinema le “diverse” trascrizioni orali sulla storia dei “martiri atellani” che il film si è assunto il compito di voler rinverdire con nuova linfa. Poi ho notato le facce dei presenti, i volti invasi da una curiosità che stava per esaudirsi, ho constatato poi la conoscenza diretta di molti di loro, la “storia cittadina” di diversi altri, insomma, tutte cose che, unite in poco tempo in un unico flusso di coscienza, hanno maturato in me la sensazione di trovarmi in un luogo coinvolgente ed alienante insieme, dentro un’esperienza collettiva dal dolce sapore antico ma fuori dal presente che Orta di Atella ha ricevuto in “dono”.

A corollario di tutto, c’erano inoltre i continui mormorii degli spettatori coinvolti i quali, potenza del cinema, usavano chiosare con un commento deciso ogni passaggio di immagine che ritraeva le forme di un paese che non c’è più (dovuta al lavoro di montaggio di Michele Cinquegrana), immagini impresse nella memoria di chi, per evidenti ragioni anagrafiche, sapeva ricordare con precisione che, laddove ora ci sono strade, palazzi e negozi, una volta c’erano la campagna, filari di vite ed alberi di noci. In quei momenti si poteva udire in maniera nitida “la è abbascio a chies”, chillo è ò luog re Tranchell”, “la jen addò mò ce sta o circule re penzionat”, “la è n’coppe castllone”,“la jen addereto ò.. santon”, frasi nate istintive ed innocenti che io ho avvertito produrre sentimenti diversi tra di loro, dallo stupore al disincanto, dalla nostalgia tenuta a freno all’aperta commozione, come se si fosse tutti coinvolti in una sorta di ipnotismo corale.

Ed è stato in quei momenti, per certi versi belli perché carichi di ingenua meraviglia, che mi è venuto di riflettere sulla coscienza sporca di un intero popolo il quale, nel mentre riannodava i fili con una memoria storica da condividere, per contrasto, si stava rendendo immemore rispetto allo scempio edilizio di cui è stato fatto fatto vittima Orta di Atella soprattutto negli ultimi vent’anni. Uno scempio frutto di una programmazione dello sviluppo del territorio scellerata ed arbitraria: andando molto oltre i fisiologici mutamenti urbanistici indotti dal naturale scorrere del tempo ed offendendo in maniera spudorata l’idea di ricercare la giusta armonia tra la vocazione culturale del territorio e l’insediamento progressivo di attività produttive diversificate. In tutto questo, occorre ricordare, il popolo ortese ha mostrato un indifferenza interessata di fronte ai mutamenti genetici che hanno compromesso nel profondo l’identità del paese, non esprimendo quasi mai la volontà decisa di opporsi a quell’affarismo edilizio che ha regolarizzato la generale preminenza del brutto. E’ ovvio che non si può generalizzare, che non tutti sono colpevoli allo stesso modo e nella stessa misura, che il grado di complicità applicabile ad ognuno determina diversi livelli di responsabilità civile. Ma è ovvio altrettanto che, da un popolo che dimostra di riconoscere ed amare il passato di Orta, le forme di una volta come gli antichi odori, ci si aspetta che abbia a cuore altrettanto la sue sorti presenti e, i possibili, sviluppi futuri.

Il rispetto doveroso per quella memoria storica suscettibile di costruire una forte identità collettiva all’interno di un’organizzazione sociale più o meno grande, non è quello che scaturisce dalle azioni di quanti si limitano a leccarsi le ferite facendo della sterile nostalgia su un paese che non esiste più, ma quello che si costruisce giorno per giorno attraverso la concretezza di comportamenti responsabili. Quelli che impongono di non voltarsi mai dall’altra parte quando la bellezza viene offesa. Solo così si può ambire ad essere dei buoni cittadini abitanti un presente che, inevitabilmente, scorre.

Una città visibile contro l’inferno quotidiano

Orta è ridotta a Città Invisibile. Quell’inferno che quotidianamente abitiamo, e che raccontava Calvino, prende forma nei tratti di un paese immerso in un’ atmosfera surreale, atrofizzato politicamente e culturalmente, nel vortice di disagi che, di volta in volta, lo prendono e lo tormentano. Il doppio dramma dei rifiuti è solo l’ultimo dei “Casi Orta” che oramai, anche a livello nazionale, fanno scuola. Da una parte il dramma di lavoratori, soggiogati dal bisogno, a cui è stato venduto il sogno di un lavoro decente e stabile, ma che si ritrovano senza stipendio spinti sul baratro di un esistenza precaria; dall’altra l’esasperazione di cittadini che tartassati da tasse con cui pagano la spazzatura a peso d’oro, si ritrovano con cadenza mensile a dover convivere con cumuli, puzza e paura per la salute. In questo scenario osceno e degradante, c’è una politica che latita dal mondo reale, occupata a far quadrare solo poltrone e assessorati e a badare esclusivamente alla propria sopravvivenza. E questo è il colpo finale per una Città già oltraggiata da vent’anni di cattiva amministrazione, sfregi ambientali, cementificazione selvaggia e una classe dirigente dedita più al “cliens” che alla “res publica”. Spinti dalla convinzione che a questa invisibilità non ci si debba arrendere nasce il Collettivo Politico Culturale “Città Visibile”, con un preciso intento: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Le recenti vicende elettorali che hanno visto nei fatti la continuità della vecchia classe politica ci hanno convinto che i cartelli elettorali, nati senza il coinvolgimento popolare anche se spinti da una vera e sana voglia di “alternativa”, risultano fallimentari; bisogna scardinare nella quotidianità, dal punto di vista politico e culturale, le radici della malapolitica attraverso una costante presenza sul territorio; diventare alternativa praticabile nel panorama politico ortese, che ha già sperimentato sulla propria pelle la “liquidità” dei partiti politici che mai hanno inciso o hanno dato almeno la parvenza di poter cambiare le cose. È nei solchi di un paese violato e abbandonato che il nostro Collettivo vuole seminare il germe dell’indignazione, per tornare ad essere “Città Visibile”. Questo può avvenire solo se si costruisce una nuova coscienza sociale collettiva, solo se la popolazione si scopre finalmente popolo, vittima di tante angherie. Un popolo che metta insieme gli abitanti dei vecchi vicoli ortesi, ridotti a semplice serbatoio di voti, senza voce ed emarginati da qualsiasi idea di sviluppo della città, con i “nuovi ortesi”, che sono arrivati da paesi limitrofi, attratti dall’idea di una “nuova” Orta rivelatasi alla fine quartiere abbandonato a se stesso senza decenza e servizi. Un popolo che probabilmente molto ha sbagliato nelle scelte dei propri amministratori, abbagliato da falsi miti di prosperità e promesse ma che ha ancora tempo per rialzare la testa e invertire la tendenza. Il Collettivo “Città Visibile” crede che questa nuova coscienza di popolo possa tornare ad esistere come protagonista, per promuovere l’idea di una nuova cittadinanza affinché si possa fermare l’oppressione di una politica autoreferenziale, che alle macerie del passato fa seguire l’inettitudine del presente.

Come cosa bellissima

Ciao Pietro. E grazie per averci insegnato a praticare il dubbio.

«Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto persuaso». Con queste parole, Pietro Ingrao, rivendicava il diritto al dissenso al XI Congresso del Partito Comunista Italiano, nel 1966. Ha sempre praticato il dubbio, Pietro, e lo rivendicava come sua principale virtù. Fu comunista atipico, eretico, ma aveva una concezione quasi sacra del Partito, “lo strumento”, e dunque non praticò mai lo scisma.

Aveva la capacità di uscire dalle stanze di Botteghe Oscure e di stare tra le persone, con gli operai e con i giovani, verso cui aveva sempre grande attenzione. Fu icona, tra anni 70 e 80, di quelli, giovani e meno giovani, che individuarono in lui la speranza che il PCI potesse rinnovarsi, e innovarsi. Seppe sempre stabilire, per dirla con Gramsci, una “connessione sentimentale” con il suo popolo. Fu partigiano, direttore de L’Unità, deputato, Presidente della Camera. Amava il cinema e la poesia, che pure praticò nel tempo lasciatogli dalla politica.

Voleva la luna, Pietro Ingrao. Era un’inclinazione, un anelito. Nei tempi magri che viviamo è questa la sua lezione: pensare alla politica come ad una inclinazione, un anelito di trasformazione e non a gestione, amministrazione di ciò che esiste. Aveva molti rimpianti, Pietro. Primo fra tutti l’aver firmato l’editoriale de L’Unità nel quale, in quell’indimenticabile 1956, scriveva “Da una parte della barricata. A difesa del socialismo” in difesa dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Non se la sarebbe mai perdonata. O ripensando all’espulsione dei compagni del Manifesto, del quale era considerato una sorta di padre putativo. Con loro mantenne poi un rapporto molto fecondo, con i vari Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Luigi Pintor, che continuarono a vederlo come un riferimento, politico ed intellettuale.

Aveva, negli ultimi anni della sua vita centenaria, l’assillo dei giovani. Continuamente li ha invitati a non chiudersi nel disinteresse, ad interessarsi, a partecipare, perché in fondo lui ha sempre pensato che la politica fosse una cosa bellissima e non qualcosa da cui tenersi alla larga. Il suo era un invito e al tempo stesso una speranza: «Il mondo è cambiato, ma il tempo delle rivolte non è sopito: rinasce ogni giorno sotto nuove forme. Decidi tu quanto lasciarti interrogare dalle rivolte e dalle passioni del mio tempo, quanto vorrai accantonare, quanto portare con te nel futuro».

Noi, che cerchiamo quotidianamente uno spiraglio, le forme possibili per incidere e trasformare l’esistente, ti portiamo con noi, caro Pietro, nella testa e nel cuore.

Ti teniamo in serbo come cosa bellissima.