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Calce – Quando i migranti eravamo noi

“Forse, tra poco, saremmo stati anche noi dei senza patria,
costretti a girare da un paese all’altro, da una questura all’altra,
senza più lavoro né radici, né famiglia, né case”

Lessico famigliare, Natalia Ginzburg

LA STORIA

Sono parecchie le cose nascoste nelle famiglie, esattamente come in quella dei Coppola, famiglia originaria dell’hinterland a nord di Napoli, cresciuta con il lavoro edile. Tre generazioni si diramano all’interno di questa saga familiare intrecciando i loro legami da emigrati in Svizzera, uno dei paesi più ricchi ma anche più intolleranti d’Europa, dove razzismo e pregiudizio la fanno da padroni specie nei confronti dei Meridionali. Fa poca differenza se siamo noi italiani a scappare dalla miseria in cerca di futuro: ci sarà sempre qualcuno che senza un apparente motivo vorrà rispedirti a casa a calci nel culo, anche se una casa non ce l’hai e forse neanche “il culo”.    

Nel suo ultimo lavoro letterario Raffaele Mozzillo torna a raccontare il Sud, Napoli e il suo hinterland con un linguaggio vivido e reale: l’epopea di un’intera famiglia che di padre in figlio, tra amori, segreti e incomprensioni sta a simboleggiare, attraverso il ciclo della calce, la metafora di un nuovo “ciclo dei vinti”, in cui il destino dei Coppola sembra coincidere con quello di una delle famiglie più famose della letteratura italiana, quella dei Malavoglia

I protagonisti di Calce si affacciano sulla scena in modo prepotente, senza filtri, incuranti del giudizio del lettore che anzi dovrà guardarsi alle spalle dalla loro ferocia e ipocrisia durante tutto il racconto pur di non restare sopraffatto dalle vicende che si susseguono vorticosamente all’interno del romanzo. Grazie a questo espediente narrativo la letteratura esce allo scoperto per tirarti un ceffone sul viso di quelli che ti fanno ricordare quanto, nonostante le apparenze, certi legami affettivi siano talvolta fragili e delicati, soprattutto se dietro di essi si nascondono falsità e menzogne.  

L’autore, attraverso l’uso magnetico delle parole in un ritmo crescente, proietta il lettore nel ventre profondo di questo dramma familiare senza possibilità di redenzione né apparenti vie d’uscita. Alla fine, a crollare come un castello di carta, sarà l’ipocrisia dei protagonisti che, schiacciati dal peso stesso delle parole mai dette e delle cose nascoste, saranno risucchiati da quella crepa da cui tutto ha avuto inizio, la stessa crepa che si forma nella calce quando si indurisce. 

L’AUTORE

Raffaele Mozzillo è senza dubbio tra i più talentuosi autori campani contemporanei. Di origini atellane, dopo aver vissuto l’infanzia e la giovinezza tra le province di Napoli e Caserta, si è trasferito a Dublino, Capitale Mondiale della Letteratura che ha dato i natali a scrittori quali Oscar Wilde e James Joyce. Attualmente vive a Roma dove lavora come editor e redattore per le più importanti case editrici italiane. Nel 2010 ha curato, assieme allo scrittore e attivista per i diritti umani Enos Rota, l’antologia “Cronache degli anni Zero”. Nel 2017 il suo romanzo “Tutte le promesse. Una storia apocrifa” è arrivato finalista all’iniziativa Modus Legendi, tra i più importanti riconoscimenti per la letteratura indipendente. ”Calce, o delle cose nascoste” è il suo ultimo eccezionale lavoro letterario edito dalla casa editrice effequ. I suoi racconti sono pubblicati su giornali e riviste in tutto il Paese.  

ESTRATTI

”Sono parecchie le cose nascoste, quelle che non si dicono all’interno delle famiglie: ci sono storie di padri che i figli non riescono a capire solo perché mancano dei pezzi. E allora succede che la memoria dei fatti si sfalda e la linea che tiene insieme le generazioni si spezza in più punti, disgregando ogni legame e allontanando. […]

Come campi di concentramento, in una forma di olocausto involontario, le stazioni elvetiche accoglievano gli italiani dal lungo viaggio estenuante, mettendoli subito in riga: donne da una parte e uomini dall’altra. Ore di attesa per il controllo dei documenti, visite mediche invasive. Ai maschi era ordinato di mettersi a torso nudo e passaporto alla mano, così veniva stilata una lista; poi, in colonna, uno per volta erano chiamati per nome e fatti entrare nudi in una stanzetta per la visita di idoneità. Alcuni proseguivano, altri, quelli giudicati non in buona salute, erano respinti e lasciati il più delle volte senza mezzi per ritornare. […]

Lei non aveva vissuto l’esperienza di sentirsi stranieri ovunque: era italiana a tutti gli effetti di legge, tant’è che Rosa, quel diritto, non lo sentiva come una conquista, qualcosa per cui si è faticato subendo umiliazioni e trattamenti razziali, come era accaduto invece alle generazioni che la precedevano e la cui linea arrivava dritto a lei come una freccia appuntita. Rosa, con la semplice venuta al mondo, aveva rappresentato una forma di permesso di soggiorno morale per il padre e la madre, una specie di alibi in carne e ossa in base al quale essi acquisivano il diritto di sentirsi liberi di vivere in quel pizzo di mondo che tratteneva dentro di sé le radici spezzate delle rispettive famiglie e di restarci, innestandosi lì, per sempre. […]

A nove anni, in quel pezzo di terra, mentre giocava a nascondino con la sua amica Ester, Micaela aveva scoperto due tossici che si stavano facendo. Una coppia di ragazzi poco più che ventenni, che si scambiavano la stessa siringa e il suo contenuto. Poi si baciavano appassionatamente e infine si lasciavano cadere a terra tramortiti dalla roba. Per Micaela quella era stata la prima reale rappresentazione dell’amore. Un amore fatto di scambio e di passione e di annientamento reciproco. Di abbandono totale. Quella scena le si era conficcata dentro la testa e l’aveva accompagnata sempre in quegli ultimi anni. A nove anni in quella scena aveva colto l’abbandono dei corpi percependolo come effetto del sentimento che i due ragazzi si stavano scambiando attraverso una specie di rituale. Così per lei, o per l’inconscio suo, l’amore avrebbe dovuto essere quello: scambio e abbandono. […]

Quel che si doveva fare andava fatto: l’amore, si sa, vince tutto, pure la morte. È la cura che sana da ogni malanno. Così ti sei ripreso il tempo che ti è stato sottratto: il tempo ritrovato, la freccia che si ricongiunge all’arco che l’ha scoccata, il proiettile che accarezza il tamburo che ha dato vita all’innesco, il male che torna a chi lo ha praticato e il bene al buono che lo ha creato. Sei un uomo fatto, adesso.”