Storia di Carlos Caszely e Salvador Allende. E della dignità.
Il Cile è un paese dalla strana geografia. È il più lungo e il più stretto del pianeta. Dalle Ande all’oceano il passo è breve. È un paese di storie grandi e di grandi passioni, è la terra che ha dato i natali a Nicanor Parra, a Gabriela Mistral e Pablo Neruda, terra di poeti dunque. A Valparaiso è nato Salvador Allende, primo marxista eletto democraticamente nella storia del genere umano.
Ma in Cile è nato anche Carlos Humberto Caszely, giocatore di futbol, el rey del metro cuadrado, tanto era implacabile nell’area di porta avversaria.
Nel 1970, aveva vent’anni, giocava e faceva gol nel Colo Colo, la squadra più prestigiosa del Cile. E votava per la Unidad Popular, la coalizione che includeva comunisti, socialisti e forze progressiste e che sosteneva Salvador Allende alla presidenza del Cile.
Allende vinse. El pueblo unido jamas serà vencido cantavano gli Inti Illimani. Caszely era un uomo del popolo, aveva vinto anche lui.
Era pericoloso Salvador Allende. Faceva paura. Perché mirava si a trasformare la società cilena, a “fare il socialismo”, ma prima ancora mirava a creare un uomo nuovo, che prendesse coscienza delle proprie potenzialità e liberasse la sua creatività, che si spogliasse di quella stupidità data dal vivere per avere o per guadagnare, perché si vive semplicemente per vivere, come la farfalla vola senza sapere di volare e il bambino gioca senza sapere di giocare. E cercava di farlo senza importare modelli precostituiti, né quello sovietico, né quello cubano. Quando Ernesto Guevara gli regalò il suo libro La guerra di guerriglia, scrisse nella dedica: “A Salvador Allende, che con altri mezzi cerca di ottenere la stessa cosa”.
Pablo Neruda diceva che Allende era un poeta, “el poeta eres tù” gli diceva. In effetti era così. Come un poeta, Allende sognava, e nel tradurre il sogno coinvolgeva migliaia di cileni che, insieme a lui, andavano a fissare lo sguardo un po’ più in là, quasi a voler indovinare un altro mondo possibile.
Faceva paura Salvador Allende. Per questo Augusto Pinochet, la mattina dell’11 settembre 1973, salvò la democrazia cilena. Assassinandola.
Tutto torno al suo posto. Nella città di Santiago lo stadio venne trasformato in mattatoio. Migliaia di prigionieri, stipati sulle tribune, attendevano che si decidesse il loro destino. Devastarono case e circoli i salvatori della patria. Bruciarono i libri.
I soldati strappavano i pantaloni alle donne gridando che in Cile le donne dovevano portare abiti femminili. I poveri tornarono ad essere poveri, come sempre.
A Washington il lavoro svolto fu molto apprezzato: “Negli Stati Uniti, come lei sa, signor Pinochet, siamo favorevoli a ciò che sta facendo. Esprimiamo al suo governo i nostri migliori auguri”. Henry Kissinger, insignito del Premio Nobel per la pace, battezzava la “ritrovata” democrazia cilena in nome degli Stati Uniti d’America. D’altronde proprio non poteva accettare che “un paese diventasse comunista per l’irresponsabilità del proprio popolo”.
In diciassette anni, migliaia di cileni sono morti sotto Pinochet. Più di 1.100 sono “desaparecidos”. Numerose altre migliaia hanno subito la tortura, il carcere o l’esilio. Un patrimonio secolare di conquiste sociali e democratiche è stato sanguinosamente disperso in un rapido volgere di tempo, e al suo posto è stato edificato un nuovo ordine, rigorosamente capitalistico.
In quel 1973 Carlos Caszely continuava a fare gol, era il suo mestiere, il punto finale del suo pensiero. Era il padrone del metro cuadrado. Viveva per buttare dentro il pallone. Regalava la gioia (ma anche la disperazione). D’altra parte scriveva bene Eduardo Galeano: “Il gol, anche se è un golletto, risulta sempre un goooooooooooool nella gola dei radiocronisti, un “do di petto” capace di lasciare Caruso muto per sempre, e la folla delira, e lo stadio dimentica di essere di cemento e si stacca dalla terra librandosi nell’aria”. Faceva gol Carlos Caszely, ma non rinunciava ad esprimere le sue idee ed anzi si impegnava in prima persona perché prevalessero le ragioni dell’uguaglianza e della libertà dal bisogno. Nelle elezioni del marzo, infatti, sostenne apertamente Gladys Marin e Volodia Teitelboim, candidati del Partito Comunista e contribuì, di fatto, ad uno straordinario risultato della Unidad Popular che, addirittura, a pochi mesi dal golpe e tre anni dopo il trionfo di Allende vedeva aumentare il proprio consenso tra i cileni. Ma il golpe spezzò il sogno.
Caszely firmò per il Levante, nella seconda divisione spagnola, perché in Cile ormai, non c’era più posto per lui, Carlos “il rosso”. Ma pensò che non poteva lasciare il Cile senza prima dare pubblicamente un segno di cosa pensava di Pinochet, doveva fargli uno sgarbo. E l’occasione si presentò quando il dittatore ricevette la Nazionale cilena prima che partisse per Mosca, dove si sarebbe giocata l’andata di una delle qualificazioni al Mondiale più politicizzate della storia. “Pinochet non era stupido, già sapeva che non l’avrei salutato”, raccontò Caszely qualche anno dopo. “Così camminò davanti alla squadra, e tutti gli diedero la mano, ma io rimasi con le mie dietro la schiena. Passò oltre e sorrise a mezza bocca”. Il Cile strappò un eroico 0-0 allo Stadio Lenin e doveva giocarsi l’accesso al Mondiale nella partita di ritorno, allo Stadio Nacional il 21 novembre 1973. In quello stesso stadio, fino ad un mese prima, i militari avevano torturato e ucciso Victor Jara e insieme a lui centinaia di comunisti, socialisti, studenti e militanti.
I sovietici, anche per questo, chiesero che la partita si giocasse in campo neutro, ma la Fifa si oppose e dunque non si presentarono a Santiago. Pinochet però organizzò un simulacro di partita in cui i calciatori cileni giocarono senza rivali e segnarono un gol a porta vuota. Tra loro c’era anche Caszely, stavolta rosso di vergogna. Non se lo perdonò mai, e insieme a lui il suo compagno Hector “Chamaco” Valdés, capitano della nazionale cilena, che proprio dallo Stadio Nacional, due settimane prima di quell’incontro mai giocato, era riuscito a tirar fuori, dopo giorni di torture, Hugo “Chueco” Lepe, ex difensore del Colo Colo, poi impiegato al Ministero delle Opere Pubbliche nel governo Allende e dunque arrestato.
Parti per la Spagna, dunque. Giocò nel Levante e nell’Espanyol. E fece gol, come sempre. Tornò nel ’78, sempre al Colo Colo, sempre rey del metro cuadrado. Tuttavia era ormai il nemico giurato dei militari per cui la sua carriera in Nazionale fu sempre contrastata. Per andare al Mondiale del ’74, Caszely dovette pagarsi il biglietto aereo e fu letteralmente annichilito dai media cileni, praticamente tutti schierati con i militari, in particolare da El Mercurio, quando venne espulso nella partita con la Germania Ovest. In quella partita fu preso a calci senza soluzione di continuità da Berti Vogts (che quattro anni più tardi si chiedeva cosa non andasse nell’Argentina dei militari e dei desaparecidos) fin quando non reagì e venne espulso. Ostracismo che continuò anche dopo che, nel 1979, venne eletto miglior giocatore della Coppa America che il Cile perse in finale contro il Paraguay.
La sua partita d’addio, che il Colo Colo giocò il 12 ottobre 1985 contro una squadra di stelle sudamericane accorse a rendergli omaggio, si trasformò in un atto politico contro la dittatura cilena.
Caszely non perse mai la speranza che potesse tornare la democrazia nel suo paese. Sapeva, in cuor suo, che il sogno della Unidad Popular, di Salvador Allende e Pablo Neruda non sarebbe più tornato, che quel treno, che passa una sola volta nella storia di un paese, ormai il Cile lo aveva perso. Ma doveva fare qualcosa, trovare il momento giusto e mischiarsi col suo popolo per abbattere il tiranno.
E il momento arrivò nel 1988, quando Caszely si impegnò nella campagna per il referendum concordato tra i militari e l’opposizione, attraverso il quale i cileni avrebbero deciso se mantenere al potere Pinochet fino al 1997 o se aprire un processo democratico. E lo fece rivelando ai cileni le torture e le violenze che aveva subito dieci anni prima sua madre, Olga Garrido, con la quale comparve più volte in televisione a raccontare quello a cui troppi cileni, dopo sedici anni di dittatura, si erano ormai assuefatti.
Il NO trionfò in quei giorni furenti e belli narrati così bene da Pablo Larrain. Furono i giorni dell’arcobaleno. E Caszely si tolse un peso. Pensò a Salvador Allende. Lo fa spesso.
Potè tornare a sentirsi orgoglioso del suo paese.
“Lei, sempre con la sua cravatta rossa. Non se ne separa mai” gli disse un giorno Pinochet. “E’ vero, la porto sempre accanto al cuore” gli rispose Caszely. “Io gliela taglierei quella cravatta” sorrise in maniera macabra il dittatore facendo il gesto delle forbici.
No, non gliel’ha tagliata.
Quella cravatta rossa, Carlos Caszely el rey del metro cuadrado, la porta ancora.
Accanto al cuore.