Ken Loach ha vinto la Palma d’oro al festival del cinema di Cannes con il film “I, Daniel Blake”. È al suo secondo riconoscimento sulla croisette, che arriva dieci anni dopo “Il vento che accarezza l’erba” sulla lotta per l’ indipendenza dell’Irlanda dalla corona inglese. Il film dell’autore inglese si è certamente aggiudicato il premio per motivi esclusivamente cinematografici, ma a me piace sottolineare il valore simbolico che assume la vittoria del suo film, il fatto che, in un tempo storico percorso da una generalizzata disaffezione nei confronti delle politiche di governo, in concomitanza quasi con la possibile vittoria elettorale in Austria della destra xenofoba, ad essere premiato sia stato un autore che continua imperterrito a considerare l’impegno politico come l’unica strada possibile per cercare i cambiare lo stato delle cose, a parlarci di una politica che non appassiona più in ragione di una idea di mondo da perseguire e che si autoalimenta sulle paure planetarie artatamente inculcate.
Diversi autori potevano aggiudicarsi la Palma d’oro in questa sessantanovesima edizione del festival di Cannes. Poteva prevalere uno tra il talento esuberante del giovane Xavier Dolan (“Juste la fin du monde”), l’elegia dolente di Jim Jarmusch (“Paterson”), il rigore etico proveniente dall’emergente cinematografia rumena con autori come Cristian Mungiu e Cristi Puiu (“Gratuatio” e “Sieranevada”). O ancora, lo spessore autoriale di Olivier Assayas (“Personal shopper”), di Pedro Almodovar (“Julieta”), dei fratelli Dardenne (“Le fille inconnue”), l’originalità di linguaggio di Brillante Mendoza (“Ma’Rosa”) o di Nicolas Winding Refn (“The neon demon”). Ed, invece, a prevalere è stato un giovane ottantenne che ostinatamente continua a percorrere il suo percorso artistico al fianco degli ultimi, degli emarginati, degli esclusi, dei sognatori, un autore di lungo corso che ha sempre concepito il cinema come un mezzo attraverso cui pensare ad un altro mondo possibile. Un cantore delle belle speranze.
L’originalità della sua poetica risiede nel fatto che il suo è un cinema che si sviluppa intorno a idee forti perorate con coerente ragionevolezza critica, che intorno ad esse porta a convogliarvi l’attenzione pubblica, non ricercandola nell’accondiscendenza passiva di chi ha la sua stessa sensibilità politica, ma sapendo generare sdegno in chiunque non si mostri indifferente di fronte alla lucida evidenza di un’ingiustizia. Il suo è un cinema militante ma mai retorico, appassionato ma mai declamatorio, ideologico ma mai moralistico. Un cinema che scruta la storia nelle sue pieghe più nascoste e ha l’abilità di fermarsi sempre alla giusta distanza : per mostrare i fatti nel loro concreto avverarsi senza compiacersi mai della sua particolare visione delle cose.
E’ rimasto sempre se stesso Ken Loach, la sua militanza inossidabile delinea una posizione precisa da cui poter guardare le cose del mondo, militanza che resiste all’usura del tempo perché fatta di cosciente umanesimo, di fede nell’ideale Socialista, priva di quegli orpelli iconografici che rischiano di renderla evanescente.
Viva Ken Loach il Rosso!