Proponiamo l’articolo di Giovanni Salomone pubblicato su “la Repubblica” edizione di Napoli il 22/11/2020
Avete presente un brutto sogno? O forse un incubo? O, meglio ancora, quei pensieri cupi che inizi da sveglio e proseguono quando, ormai sfinito, ti addormenti? Che poi dormire è parola grossa, forse desiderio, perché non dormi, sei troppo concentrato a respirare, e sobbalzi quasi come se dormire fosse una colpa, una condanna.
Mi sono immaginato a pancia in giù, prono, attaccato a fili e macchinette, a fornitori meccanici di aria e di vita. Mi sono immaginato con il casco, come un astronauta, come Sigmund Jähn o Juri Gagarin, cercando sì lo spazio, ma quello nei polmoni per un tantino d’aria.Perché quello è il problema per chi viene attaccato dal lestofante con l’aureola, un altro modo per dire Covid-19, nella forma della polmonite bilaterale: l’aria.
Ne hai poca. Temi di non averne abbastanza. E guardi continuamente quei numeri illuminati e rossi come li segna il saturimetro, che non salgono, non salgono, anzi scendono, nonostante la mascherina a scavare solchi sul viso, l’ossigeno a dieci e tutta la tua volontà.
Parrebbe, finalmente, di essere passato in vantaggio, di aver guadagnato qualche metro, di essere sulla buona strada per “scacciare l’invasor”. Sono stato fortunato. Giovane. Ed in buona salute. Non credo, come dice qui qualche anziana, di aver goduto della simpatia di un Dio che non vedo, piuttosto credo di aver goduto delle capacità di chi mi ha curato, di quegli uomini e quelle donne di trincea che sono andati oltre, come e con tanti altri, spesso andando a tentoni, come i bambini quando cercano il lettone nel buio. Quelli che hanno “forzato” un sistema che fa acqua tappando una falla dopo l’altra.
Non sono credente, ma credo nel genere umano. Ed è per via di questa fede incrollabile che quello che vedo e che sento in questi giorni furenti mi indigna, mi sconvolge.
Il gioco a rimpiattino di chi dovrebbe guidarci fuori dall’emergenza o, quantomeno, costruire ed adoperare gli strumenti per affrontarla è avvilente. Come se ci fosse un fossato ormai insuperabile tra politica e popolo, “da una parte la gente e dall’altra il potere”, come dice la canzone. Uno cerca l’altro che si è nascosto, l’altro cerca quell’altro che ha preso le decisioni in ritardo, l’altro ancora rispedisce al mittente gli insulti ricevuti. Ed un altro che sapeva tutto fin dall’inizio, quello che bisognava fare ma non lo ha fatto, che lo aveva detto, che lo aveva pensato.
I monologhi del Presidente della Regione Campania, dal suo eremo salernitano del Genio Civile, lui e la telecamera ormai da settimane, mi danno un senso di scollamento dalla realtà, per non dire di cupio dissolvi; il senso della distanza più profonda tra la narrazione presuntuosa di chi decide e le condizioni materiali di chi quelle decisioni le subisce. La frattura tra chi è in alto, vestito da sceriffo senza più stella, come è stato scritto, e quelli che sono in basso.
Mi offende lo sciorinamento di numeri e miracoli, di posti letto “ampiamente disponibili” quando quasi un mese fa, quando la mia lotta era appena iniziata e pareva tragica, mi dicevano che era necessaria l’ospedalizzazione ma che il posto libero non c’era. Si: non c’era. Anzi, per essere precisi: “Il più vicino, se volete, è in Basilicata”. Mi offende sentire che manca il personale sanitario da chi ha proseguito nell’opera di smantellamento della sanità pubblica. Mi offende sentire che la Campania è meno in sofferenza del Piemonte o del Veneto, se è vero che dieci giorni fa hanno chiamato per me (io non ero in grado di dire una mezza parola) il 118, alle 10 del mattino ed il personale del 118 ci ha richiamato solo alle 21, sì, undici ore dopo, per dirci che eravamo in lista, ma che non sarebbero venuti perché dovevano andare da un ragazzo diciannovenne che doveva essere intubato e che l’ambulanza disponibile era una. Un mese fa, quindi. E ancora dieci giorni fa. E ora tocca ad altri lo stesso calvario.
Certo, mica il Presidente della Regione è l’unico a giocare a rimpiattino, mica è l’unico a dire “non è colpa mia, son là a Roma i colpevoli”. Assolutamente. Il suo atteggiamento è però la summa del disastro in cui siamo impastoiati. Disastro che viene da lontano, dalla devastazione della sanità pubblica, dalla incapacità di avere una visione “sociale” dei servizi essenziali, dalla esaltazione dell’iniziativa privata purché sia, dall’idea che tanto se hai soldi e conoscenze in qualche modo te la cavi.
Una devastazione che, picconata su picconata, ha smantellato questo paese e che ha responsabilità trasversali.Una devastazione che, da operatore sociale, sperimento spesso quando incontro le Istituzioni: troppo spesso ormai, invece che aiutarci a risolvere i problemi, ce ne creano di ulteriori.
Al tempo della pandemia la politica va ripensata. Rifondata sulla base di un rapporto dialettico tra i rappresentanti ed i rappresentati. Va recuperata la dimensione sociale della politica, quella dimensione collettiva, di partecipazione, quella “connessione sentimentale” che è l’unico rimedio a quel fossato che sta inesorabilmente diventando un baratro.