Uno degli argomenti più utilizzati dai fautori del sì è quello del “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” (per dirla con le parole della scheda che avremo tra le mani il 4 dicembre).
Il tema del risparmio fa presa, è di facile comprensione, convince.
Proviamo a guardare in profondità. L’ideologia del risparmio è cosa buona e giusta a prescindere?
È utile, per spiegare le ragioni del no, avvitarsi in una discussione su quanto si risparmierebbe con la riforma a regime? Poco, molto.
A mio avviso bisogna cambiare il punto di osservazione. Radicalmente.
“Le riforme costituzionali non si fanno per risparmiare” dice Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, ed è un dire sacrosanto. Ci sono “cose”, appartenenti alla vita pubblica, sulle quali non si deve risparmiare. Queste “cose” sono i diritti, che hanno un costo, presuppongono un impegno. Quando esse sottostanno alla logica del comprare (e quindi del risparmiare) automaticamente degradano, non sono più diritti.
Per dirla in maniera più spicciola: il modo in cui si disegnano gli assetti costituzionali di un paese non deve essere condizionato dall’intento di risparmiare ma dalla volontà di approntare procedure e strumenti validi per produrre buone decisioni pubbliche, buone leggi. Se per questo c’è bisogno di risorse, sono i soldi spesi meglio.
L’ideologia del risparmio è perversa, anche.
Un esempio: l’esternalizzazione di una mensa scolastica comporta risparmio, non c’è dubbio, ma (nove volte su dieci) porta con sé la compressione del diritto ad una sana alimentazione per i bambini e la precarizzazione dei rapporti di lavoro di cuochi e personale vario. Voi, per i vostri figli, lo fareste questo risparmio?
A chi ci parla di risparmio dobbiamo rispondere che noi siamo per l’equità, che è tutta un’altra cosa. Per la giustizia. L’ideologia del risparmio calata in un sistema profondamente iniquo come il nostro può generare mostri.
Tornando alla riforma: il presunto risparmio è, a mio avviso, l’effetto collaterale di una “riduzione” della democrazia e, in quanto tale, è proprio inaccettabile.
Per i fautori del cambiamento in peggio (così comincerei a chiamare quelli del sì) molti risparmi si avranno dalla modifica del titolo quinto della Costituzione. Il “prezzo” da pagare per questo risparmio è la massiccia concentrazione del potere nelle mani dello stato centrale a danno dei territori.
Per inciso: la dialettica territori-stato centrale è definitivamente “asfaltata” dalla cosiddetta clausola di supremazia, in nome della quale il potere centrale può avocare a sé praticamente ogni tipo di decisione.
La promessa che sarà il nuovo Senato il luogo in cui avverrà la composizione tra gli interessi locali e quelli della “nazione” è di per sé la conferma che la “periferia” non conterà più nulla: la “rappresentanza” dei territori ( tra l’altro esercitata da “personale politico” non eletto direttamente) confluisce in una camera che, per stessa ammissione dei fautori del cambiamento in peggio, è una camera di serie b che in molte materie non ha alcun potere “contrattuale” di fronte all’altra camera e al governo.
Ecco: questo nuovo assetto fa risparmiare dei soldi, forse ( il risparmio deriverebbe dalla diminuzione, tutta da dimostrare, dei conflitti tra stato e regioni). Ma quanto costa in termini di democrazia, autodeterminazione, bilanciamento dei poteri?
Ogni volta che ci parlano di risparmi dovremmo chiederci: “su cosa stiamo risparmiando?” ; la risposta a questa semplice domanda offre la possibilità di distinguere tra compressione dei diritti e produzione di maggior giustizia.
Stesso discorso per il risparmio frutto del ridisegno del Senato. In questo caso la domanda è: il risparmio compensa il disastroso nuovo procedimento legislativo proposto dagli estensori della riforma costituzionale?
Qui il “regalo” del Governo in carica è incartato proprio bene: ben 215 senatori in meno, che volete di più? (La mera diminuzione del numero dei politici sarebbe l’acqua santa che trasforma la pessima politica in buona politica).
Poi scarti il “pacco” e dentro ci trovi un nuovo iter per produrre norme e decisioni pubbliche che, in nome del “saper decidere”, strozza ogni dialettica parlamentare, ingarbuglia i procedimenti, mette tutto (ma proprio tutto) nelle mani della maggioranza.
“La riforma è un pacco” ho sentito dire in ambienti non proprio accademici. Definizione poco tecnica ma decisamente aderente alla realtà, secondo me.
Guardi una televendita, ti convince l’abile presentatore, “risparmio un sacco” ti dici, hai anche quella leggera eccitazione (direbbe Gaber). Telefoni e fai l’ordine. Poi, quando scarti il pacco che “celermente” ti è arrivato, scopri che dentro c’è l’esatto contrario di quello che ti avevano venduto.
Non fermatevi alla bella e patinata carta, scartate il pacco prima del 4 dicembre.