Per carità, non bastano le lacrime che abbiamo per piangere gli uomini e le donne morte nell’abominio parigino. Troppo spesso ci diciamo che “non dobbiamo dimenticare”. Tuttavia l’esercizio della dimenticanza è pratica in cui eccelliamo in questo nostro occidente opulento e abominevole.
Pare quasi che il tempo sia ridotto all’istante in cui le cose accadono, pare quasi che la storia perda profondità e si manifesti esclusivamente nel presente, nel mentre le cose accadono. Eppure quello che accade sempre contiene delle domande e spesso è frutto delle risposte.
Allora possiamo capire quello che accade oggi, qui e ora, se dimentichiamo? Possiamo lasciarci andare al tumulto delle sensazioni come fossimo nati oggi e solo oggi conoscessimo l’orrore? Possiamo pensare che quell’orrore lo abbiamo subito e che mai lo abbiamo creato? Possiamo scadere nella rappresentazione bestiale che getta odio nell’odio a riempire il calderone?
No! Per essere conseguenti dovremmo interrogare il passato per cercare di comprendere il presente e costruire brandelli di futuro.
Dovremmo “non dimenticare”. Non dimenticare che il terrore è pratica che l’Occidente conosce bene, da Hiroshima e Nagasaki per restringere il tempo alla contemporaneità; che troppo spesso abbiamo usato la geometria variabile dell’interesse brandendo la spada con una mano e fingendo la democrazia con l’altra.
Troppo spesso abbiamo considerato le morti, morti nostre o morti loro.
In questo secondo caso ce ne siamo allegramente fottuti. E continuiamo a farlo.
La storia insegna ma non ha scolari, diceva Antonio Gramsci. Appunto.
Il globo diviso in etnie, in razze, in colori, in religioni, in classi, ma questo non si puó dire. Da una parte peró c’è chi sfrutta, depreda e accumula, dall’altra chi accumula si, ma l’odio, il rancore, la vendetta.
Sicuri di essere dalla parte buona del mondo, abbiamo esportato le nostre ragioni e i nostri conti in banca a suon di cannoni, di proiettili, di grappoli di bombe.
Abbiamo seminato morte, corpi straziati, lamenti di bambini e di chi è rimasto.
Fumanti ancora sono i campi afghani e iracheni, quelli libici, siriani e di qualche altro altrove. Li abbiamo seminati a sangue.
Davvero abbiamo creduto che mai ne venisse una reazione opposta e contraria? Davvero abbiamo creduto che qualcuno, in quelle terre, credesse che ci importasse più degli esseri umani che dei pozzi di oro nero? Che il problema per noi fosse un Saddam in più o un Gheddafi in meno, dopo averli blanditi, foraggiati e applauditi quando non servivano bombe per fare affari, perchè il denaro, si sa, è il comune feticcio di tutti gli uomini?
È poi? E poi la Palestina.
Luogo di martirio, terra umiliata e offesa in nome di Dio. Ah, se Dio scendesse in terra a dire: “non esisto!”
Tutti i giorni, ogni giorno esercitiamo la dimenticanza e gli altri, quelli buoni per tutte le stagioni, esercitano la menzogna a tutto spiano, la realtà mutilata, sfregiata.
La Palestina ridotta a striscia, brandello di terra. Muri, muri, muri. Spiragli nei muri. Blocchi. No, no, no, non puoi camminare nella tua terra.
I coloni. Ma chi sono, i coloni?
I coloni colonizzano?
E cosa si colonizza? La terra propria o la terra altrui?
E noi dividiamo il giusto dall’ingiusto?
Non sono morti nostri quelli che come mosche cadono con una pietra in mano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania?
Facciamo fatica a chiamarlo genocidio per esorcizzare le nostre colpe, come se evitando la durezza della parola scomparisse il contenuto, il senso, il fatto.
Invece non scompare nulla, non scompaiono le strade lastricate di sangue, i morti bambini alla fermata del tram, quel lembo di terra rimasto di una terra che era grande, qualche anno fa.
E allora fermiamoci. Piangiamo pure, ma in silenzio.
Quando non siamo capaci di parole o non abbiamo il coraggio delle parole che andrebbero dette allora dobbiamo tacere.
Restiamo umani, diceva il poeta. Non dimentichiamo, dico io.
Che poi è la stessa cosa.