Ô douleur! ô douleur! Le Temps mange la vie,
et l’obscur Ennemi qui nous ronge le coeur
Du sang que nous perdons croît et se fortifie!
— Charles Baudelaire, Il nemico*
13/112015. Sette attacchi terroristici congiunti rivendicati dall’Isis hanno colpito al cuore la città di Parigi provocando la morte di 129 persone e il ferimento di altre 300. Questo attacco criminale che ha sconvolto l’intera Francia, provocando sconcerto per la maniera relativamente semplice con cui è stata attentata la vita ordinaria di una grande metropoli occidentale, non rappresenta altro che un’ulteriore tappa di quella “arte” di fare guerra che da sempre si accompagna alle vicende umane nel mondo. Nel corso della sua tragica storia, la guerra ha spesso cambiato forma, modalità di esecuzione e finalità da perseguire, finendo per diventare oggi qualcosa di molto diversa da quella cui siamo stati abituati a conoscere sui libri di storia.
Almeno fino al secondo conflitto mondiale, la guerra era una cosa chiara, dai contorni facilmente definibili, si sapeva chi combatteva contro chi e perché, il conflitto era “ritualizzato” da regole accettate da ognuno, era possibile sapere quando una guerra iniziava, quando veniva stipulato un armistizio e quando terminava. Poi è iniziata la cosiddetta “Guerra Fredda”, con le due super potenze, Usa e Urss, a spartirsi il mondo in due distinte sfere di influenze. Teatri di guerra sono diventati principalmente l’Africa, l’America Latina, il Sud-est Asiatico, il Medioriente, dove, nel susseguirsi vorticoso di colpi di Stato, le due super potenze hanno mostrato il peggio di loro stesse per la salvaguardia dei rispettivi interessi internazionali. Quindi, con la dissoluzione dell’impero sovietico, e il relativo predominio politico e culturale degli Usa, il mondo è diventato più instabile per effetto dell’emergere esponenziale di tanti particolarismi nazionali.
Col termine “Balcanizzazione del mondo”, ci si riferisce appunto alle spinte autonomiste di diversi popoli i quali, svincolatosi dalla “tutela” coatta che erano costretti a subire, tendono a trasformarsi da entità nazionali a Stati indipendenti riconosciuti a livello internazionale. Passaggio che è quasi sempre avvenuto attraverso sanguinose guerre fratricide. La fine di un controllo politico imposto dall’alto ha consentito l’emergere di “neo” potentati economico-finanziari che in molte realtà territoriali, speculando sulla “verginità” economica dei “nuovi mercati” da conquistare e sul vuoto di regime ereditato, piuttosto che accompagnarle nel processo di progressiva democratizzazione dei rispettivi apparati statuali, hanno favorito, in maniera più o meno diretta, la nascita e la proliferazione di nuove forme di radicalismo politico. Quindi, la guerra è diventata quella che conosciamo oggi, una guerra che da “posizione” diventa più di “movimento”, dove il nemico da combattere non necessariamente corrisponde ad un’entità Statale vera e propria, dove vengono colpite più delle popolazioni inermi che obiettivi militari situati in territorio nemico. Una guerra fatta dal e contro il terrorismo che, dopo più cinquant’anni, coinvolge più direttamente l’Occidente ricco perché è contro la sua cultura secolare che i professionisti del fanatismo religioso scagliano i loro anatemi. Una guerra dalla natura sfuggente perché non è dato mai sapere il come e il quando produrrà la sua dose di morte e terrore e perché più complessi ed ambigui vanno facendosi gli intrighi di potere della geopolitica mondiale. Una guerra asimmetrica perché ognuno combatte con le armi che possiede seguendo la propria strategia bellica, combattuta indistintamente in qualsiasi parte del mondo, laddove sono resi necessari e contingenti i suoi effetti destabilizzanti. Una guerra di tipo psicologico che quando non deflagra in fatti criminali si mantiene bene in vita agendo a bassa intensità, perché tutta giocata sulla percezione che si deve avere del nemico e perché molto investe sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa.
Per opera di fanatici fondamentalisti o di “bombe intelligenti”, la guerra contemporanea ha come effetto tragico immediato quello di produrre in serie vittime totalmente esterne al conflitto. Perché il suo scopo precipuo è quello di iniettare nel tessuto quotidiano un’impercettibile sensazione di paura, di generare il timore di instaurare un rapporto normale con le forme della città, diffidenza nel diverso, odi razziali, contrasti culturali, dissidi etnici. In nome di un Allah profeta dell’Islam, i cui adepti fondamentalisti riconducono tutta la complessità interpretativa alla sola componente jihadista, o per conto di un’idea di pacificazione planetaria che si vorrebbe costruire facendola combaciare ad un unico modello economico-culturale, la guerra contemporanea si arroga quasi sempre il diritto di combattersi per nome e per conto di interi popoli che sono quantomeno estranei alle logiche sotterranee che ne motivano le modalità di esecuzione.
Il fatto è che, per molti secoli, i popoli sono stati abituati a subire passivamente la guerra, arrivando a partorire nei sui riguardi un rapporto fatalistico, come di una cosa ineluttabile. Ci si sentiva in guerra per il semplice fatto che il proprio paese l’aveva dichiarata a qualcun’ altro, ma, in concreto, la combatteva solo chi era partito per il fronte, chi era in trincea a scambiarsi pallottole con il nemico. Oggi, la guerra la si subisce per quella quota che ci vede direttamente coinvolti, per il resto, rimane un punto fisso nella cultura dei popoli per il fatto che ad ognuno viene chiesto di ergersi a partigiano di un particolare stile di vita, di difenderne i valori fondativi. Quando accadono eventi come quelli di Francia, le sapienti regie mediatiche, le stesse che molti altri casi simili in giro per il mondo fanno rimanere ignominiosamente nel dimenticatoio, chiedono a tutti di trasformarsi in spettatori-combattenti, indistintamente, ognuno per quello che può e come sa, arrivando ad insinuare il ricatto morale che è da considerarsi un nemico del proprio popolo chiunque non accetti di difendere acriticamente il sistema di valori di cui è portatore.
Non può esistere motivo alcuno che possa giustificare qualsiasi attentato terroristico, rimane una barbarie da condannare senza indugi. Ma un problema, qualsiasi problema, se non viene capito per quello che realmente è, e chiamato col nome che merita, neanche si può pensare di risolverlo.
Di fronte a quanto accaduto a Parigi, il punto non è mettere in discussione la legittimità di ogni Stato sovrano di praticare la politica estera più idonea ai propri interessi nazionali, ma capire che in guerra ognuno combatte con le armi che possiede, che la violenza alimenta altra violenza, che l’uso di un linguaggio violento incattivisce gli animi, corrompe le coscienze, intorpidisce l’intelligenza.
Rispetto al crimine rivendicato dai terroristi dell’Isis, più importante di definire quante colpe ha avuto l’Occidente nel non aver saputo analizzare adeguatamente il fenomeno e nel continuare nell’abitudine di coltivare delle serpi in seno che poi, sistematicamente, gli si rivoltano contro, è prendere atto che in guerra, qualsiasi azione prodotta, risponde a delle logiche di potenza che ognuno contribuisce a porre in essere. Ognuno può decidere di schierarsi come meglio crede, ma, in ogni caso, resta il fatto inopinabile che la guerra genera morte e che la morte chiama altra morte.
Insomma, la guerra è, fosse solo perché, gli interessi economici di uno Stato, la necessità di trovare nuovi sbocchi alle capacità produttive interne, le politiche di dominio territoriale, l’accesso alle risorse ritenute strategicamente vitali per lo sviluppo economico di una nazione, sono da sempre gli elementi sufficienti volti ad offrirgli una sorta di giustificazione morale perpetuandone l’esistenza lungo tutto il corso della storia umana.
Se si vuole che la guerra non sia ciò che è sempre stata, occorrerebbe disinnescarne a monte gli effetti deflagranti che, nella fattispecie contemporanea, potrebbe significare fare in modo che questi professionisti del terrore rimangano soli con i loro deliri di onnipotenza, senza alcuna possibilità di rimpinguare le fila degli adepti facendo presa su quella massa di diseredati tenuti a debita distanza dalle ricchezze del pianeta. Il terrorismo si nutre da sempre delle contraddizioni del mondo, incarnandone la faccia più funesta.
Occorrerebbe diminuire la forbice tra nord e sud del mondo, tra chi ha tutto e pretende di avere sempre di più, e chi rimane avido di benessere.
Occorrerebbe perciò aprirsi al mondo e alla sua complessità, non rinchiudersi in se stessi e acuire paure costruite ad arte.
Detto altrimenti, un mondo il cui sistema economico che lo permea genera continue diseguaglianze economiche ed iniquità sociali, non può pretendere di essere pacificato. È come la coperta corta che non può prescindere dai suoi limiti strutturali e, quindi, mostrarsi in tutta la sua deleteria inconsistenza.
Dal mio punto di vista, occorrerebbe fare tante cose per cercare di depotenziare a monte gli effetti tragici della guerra, tutte cose dal vago sapore utopico probabilmente, ma che intanto esprimono la volontà di iniziare un processo di progressiva e più proficua umanizzazione del mondo. Volontà che qualsiasi gestore del potere non ha ancora mostrato di praticare. Perché, sia detto per inciso, i “capi del vapore”, nel pieno esercizio delle loro funzioni, hanno una fondamentale facoltà in loro possesso: quella di ricondurre l’agire politico ad un puro atto volontaristico.
Intanto che qualcosa di buono accada, di fronte alla morte gratuita di tanti innocenti, piuttosto che sparlare a vanvera e arringare le folle facendo propagandisticamente leva sull’onda emotiva del momento, e molto preferibile rimanere in silenzio per qualche giorno come segno tangibile di sentito cordoglio. Credo sia il modo più sincero per portare rispetto alle vittime francesi di questa “guerra globale”. E alla stupenda Parigi, culla di arte e bellezza, la città in cui ogni amante devoto della cultura vorrebbe vivere.
* Ho dolore, dolore! Mangia il tempo la vita, / e l’oscuro Nemico che ci rosicchia il cuore / col sangue che noi perdiamo cresce, si fa forte! [top]