È trascorso ormai un anno dall’inizio della pandemia e come ogni fase di crisi economico sociale a pagare il prezzo più alto sono le donne.
Ancora una volta le disparità di genere emergono in superficie in tutta la loro evidenza, e sono drammatiche. Basti pensare ai dati sulla disoccupazione femminile, un numero preoccupante, anzi tragico, perché sì, tra chi che quest’anno ha perso il lavoro, la stragrande maggioranza è donna: a migliaia sono state licenziate o addirittura costrette a licenziarsi perché impegnate nella cura dei figli e della famiglia.
Non bastava essere già le vittime “privilegiate” di contratti precari, di quella idea per la quale l’essere umano, ed in particolare la donna, sia un elemento inanimato della produzione e quindi possa ad un certo punto “non servire più”. Con la pandemia questa condizione si è radicalizzata, le donne sono sempre più precarie e sempre più spesso intrappolate a casa, dietro ad uno schermo, tra didattica a distanza e lavori domestici, a volte incatenate a uomini violenti, completamente abbandonate a se stesse, soltanto accomunate da una resistenza all’emergenza, perché non solo devono trovare forza e mezzi per affrontare i problemi, ma anche cercare di essere felici, per non essere schiacciate dal peso della vita, grande e terribile.
Nella giornata internazionale della donna non possiamo non sottolineare come questo paese sia fermo nella sua arretratezza rispetto alla parità di genere: quando si parla dei diritti delle donne risultiamo imbarazzanti.
Per quanto tempo ancora le donne dovranno sacrificarsi? Quanto tempo ancora dovremmo voltarci dall’altra parte quando vengono prese delle misure che non sono uguali per tutte e tutti e non tengono conto dei bisogni di ognuno e ognuna?
È il tempo di cambiare rotta ed iniziare a garantire, al tempo della pandemia, lavoro e diritti alle donne riconoscendone le competenze ed il ruolo sociale. Questa crisi deve diventare la chiave di volta per una società finalmente libera dai suoi retaggi sessisti, nella quale ogni essere umano, e quindi in primo luogo la donna, possa riconoscere ed impugnare gli strumenti della propria emancipazione.