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In morte di Fidel Castro. Rivoluzionario.

Nei tempi in cui viviamo, dove non si nega a nessuno la possibilità di tracciare bilanci e promuovere o bocciare esperienze che hanno cambiato la storia; dove un Saviano qualsiasi può esprimere liberamente le sue enormità da intellettualoide tuttologo esperto in decontestualizzazioni e luoghi comuni, proviamo anche noi, come Collettivo, come uomini e donne che stanno insieme nella pretesa, in sè fisiologica e assurda, di modificare l’esistente, a raccontare cosa ha rappresentato, e cosa rappresenta, per noi Fidel Castro.
Nessuno di noi appartiene a quella generazione che ha vissuto coscientemente la Rivoluzione Cubana, ma ognuno di noi ha letto, magari di notte, di quando Fidel, Ernesto e Camilo guadagnavano metri e speranza sulla Sierra Maestra. Ed ognuno di noi si è emozionato per quel testardo e insopprimibile anelito di giustizia e di libertà che lentamente andava riaffermando l’autodeterminazione dei popoli, e in un tutt’uno, spazzava via il concetto che un piccolo paese potesse essere il bordello di un grande paese. Siamo cresciuti contando le volte che gli Stati Uniti hanno cercato di assassinarlo, Fidel, ma Fidel ogni volta nasceva di nuovo, e tutte le volte che a Cuba non arrivavano libri, medicine e bulloni per via di un embargo che ogni anno, per più di cinquant’anni, hanno votato Stati Uniti, Israele e Micronesia. E Cuba è rimasta lì, e ha resistito.
Ridurre la vicenda di Fidel nel recinto della Guerra Fredda è fuorviante, è un espediente utilizzato dai suoi critici, quelli che hanno tentato in tutti i modi ed in ogni luogo di etichettarlo come filosovietico, epigono tropicale dei socialismi reali dell’est europeo. Niente di tutto questo. Certo, da comunista, da antimperialista, tra Stati Uniti e Unione Sovietica aveva ben chiaro da che parte stare, ma Cuba non è crollata nel 1989, e son passati ventisette anni.
Ha rappresentato un riferimento per tutto il continente latinoamericano, Fidel Castro, anche per chi ha rifiutato di adottarne il modello, come Salvador Allende, ma perseguiva lo stesso fine, il socialismo. È stato un riferimento per tutti quei popoli, dal Venezuela al Cile, dalla Bolivia al Nicaragua, dall’Argentina al Salvador che, in tempi diversi hanno tentato di uscire dal corile di casa degli Stati Uniti. Ma è stato un riferimento anche per noi quaggiù, almeno per quelli che non si arrendono alla dittatura del capitale e non ritrovano in questa Europa opulenta ed ottusa che sta morendo di neoliberismo ed ipocrisia. Quella Europa che s’indigna per i balseros cubani ma poi respinge quelli che attraversano il mare per sfuggire alla fame e alle guerre che lei stessa fomenta. Ah la democrazia!
È stato un modello ed un compagno di lotta per Nelson Mandela, il quale più volte affermò, come ben ricorda Gennaro Carotenuto, che senza la Rivoluzione cubana, senza la volontà politica di Fidel Castro, senza il sangue di migliaia di combattenti cubani, oltre che degli angolani dell’MPLA di Agostinho Neto, delle milizie armate del suo African National Congress e dei namibiani della Swapo, l’apartheid non sarebbe finita. L’apartheid non finisce perché finisce la guerra fredda o per un atto lungimirante dei buoni razzisti come in Occidente piace pensare, ma perché fu sconfitto militarmente a Cuito Cuanavale, nella più grande battaglia campale in territorio africano dalla fine della seconda guerra mondiale. I cubani vi svolgono, tra la fine dell’87 e l’inizio dell’88, un ruolo decisivo e lì si aprono le porte del carcere dove il “terrorista” Mandela era sepolto da oltre un quarto di secolo. Per Cuba, per Fidel, l’internazionalismo e la lotta al razzismo non erano parole.
Un dittatore. Così i custodi dei diritti democratici definiscono oggi Fidel. Satana, si legge sui cartelli sventolati a Miami da qualche centinaio di esuli cubani, molti dei quali stampano fogli di propaganda pagati dalla CIA. Rivoluzionario, diciamo noi. Con le contraddizioni e le ombre che ogni rivoluzionario, storicamente, porta con sè.
Ma un rivoluzionario, questo è stato Fidel. È stato detto che ha represso la Chiesa Cattolica, ma ben prima dello storico incontro con Wojtila, che in quegli anni peraltro si incontrava pure, ed amichevolmente, con Augusto Pinochet che i dissidenti li sventrava e li lanciava in mare aperto, aveva riaperto gli spazi di libertà religiosa come ampiamente riconosciuto dal Cardinale primate Ortega, che da anni dichiara di non avere alcun conflitto da lamentare con la Rivoluzione. Questo mentre centinaia di religiosi formatisi sull’onda lunga del Concilio Vaticano II e della Teologia della Liberazione, venivano assassinati, non a Cuba, ma nel resto del continente, come Óscar Romero, con il Vaticano che solitamente volgeva altrove il suo ecumenico sguardo e qualche volta giocava a tennis con i carnefici, vedi Pio Laghi con Massera, in Argentina.
Ombre, certo. A Cuba, specie negli anni settanta, vi sono stati costantemente alcune decine e in alcuni periodi alcune centinaia di prigionieri politici. Ma sono poca cosa rispetto a quelli detenuti senza alcuna incriminazione a Guantanamo, alcuni ormai da 15 anni. Certo, pure un solo prigioniero politico è troppo ma fa male ai custodi degli spiriti democratici dover ammettere che non esiste un solo paese del continente americano, Canada escluso, Stati Uniti inclusi, dove i diritti umani siano stati violati meno che dalla “dittatura” cubana in questi 57 anni.
Strano dittatore dunque, questo Fidel Castro. Prendendo ancora una volta in prestito i concetti espressi da Gennaro Carotenuto, è stato il dittatore di quell’unico unico paese del continente americano che non ha conosciuto il termine desaparecidos. Centinaia di migliaia di persone sono state fatte sparire nel frattempo da dittature e democrazie filoamericane praticamente in tutto il continente. “È triste pensare che solo la dittatura di Fidel Castro abbia fatto da argine al crimine contro l’umanità della sparizione forzata di persone e del terrorismo di stato. Senza libertà di stampa, Cuba è pur sempre l’unico paese al mondo dove non è mai stato ammazzato un giornalista. E neanche un sindacalista, laddove in paesi come il Brasile, il Messico, la Colombia ne cade senza rumore uno al giorno”. Diecimila bambini al giorno muoiono di fame, nel mondo, ogni giorno. Nessuno di loro è cubano. Neanche un bambino, infatti, è più morto di denutrizione nell’unico paese che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è libero dalla denutrizione infantile in un continente colmo di terre fertili e acqua potabile ma dove la fame resta una piaga.

E allora vai caro Fidel. Abbiamo sperato insieme a te, cercando di intravedere anche noi, quaggiù, una strada, un sentiero che ci conducesse verso un altro mondo possibile. E sappiamo che c’è, che è possibile. Fosse anche solo per questa consapevolezza, che hai contribuito a formare in milioni di uomini e donne in tutto il mondo, compreso quel punto cementificato e offeso che porta il nome di Orta di Atella, bè, fosse anche solo per questo, stai sicuro Fidel, che si, la storia ti assolverà.